Premessa irrinunciabile, prima di qualunque discorso sulla Pubblica amministrazione italiana: più buio che a mezzanotte non può mai diventare. Quindi che la riforma Madia – varata l’altro giorno – sia ottima o sia pessima, nulla potrà in nessun caso cambiare in peggio. Non è vero che dopo aver toccato il fondo si può sempre cominciare a scavare, almeno in questo caso no, perchè lo scavo è già stato fatto da tempo dai nostri burocrati e ha condotto gli scavatori dall’altro lato del globo. Chi scrive è figlio, fratello e cugino di pubblici dirigenti seri e perbene, dediti al loro lavoro e probi: ma proprio per questo a loro volta sgomenti della generale, mostruosa inefficienza del sistema.



E dunque, gufismi a parte, la madre di tutte le riforme – perché far lavorare meglio gente che è già sul libro paga dello Stato non costa niente e può rendere tanto – cosa e come promette di cambiare? Metodologicamente, il perno della riforma risiede in una parola magica: meritocrazia. A carico dei dirigenti: giusto, giustissimo. O meglio, è giusto sulla carta: ma sul piano pratico spunta l’incognita, la “x”. Gli incarichi dirigenziali saranno a tempo, dureranno massimo 4 anni e potranno essere rinnovati solo una volta, se l’interessato avrà ben meritato. Il tutto pesantemente riflesso sugli stipendi. Ecco perché, probabilmente, nel frattempo il governo ha “aperto” alle richieste di aumento salariale dei sindacato del pubblico impiego… E qual è l’incognita? È presto detta: chi valuterà i dirigenti?



Già, perché i dirigenti pubblici, o i funzionari che aspirano a diventarlo dopo aver superato un concorso, saranno inquadrati in “ruoli unici” dai quali Stato, Regioni, Enti Locali e Autorità Indipendenti, “pescheranno” le loro risorse. Come? Valutandoli. Ahia. Le selezioni saranno pubbliche, come pubblici sono già oggi tanti concorsi che hanno selezionato la classe dirigente che si vuole riformare. Selezionandola pessima. Un po’ come se un medico, dopo aver verificato che una certa medicina nuoce al paziente, per guarirlo gliene desse un’altra dose. Una specie di sadica omeopatia.



Ma d’altra parte, se non così, come si dovrebbe procedere? L’incognita – tanto per tornarci – è quindi la qualità e professionalità e moralità di coloro che selezioneranno i dirigenti. Che dovrà essere nettamente migliore dei selezionatori che si sono finora prodotti.

Ma c’è ben di più: finora, una selezione sbagliata era disastrosa, perché promuoveva per la vita qualcuno che diventava inamovibile. Ma, almeno, in questo modo creava una casta di mandarini indifferenti (almeno in parte) alle successive fluttuazioni della politica, assai incisive sulle selezioni. Ma domani, con questa riforma? Quale potrà mai essere l’indipendenza di questi valutatori dalla politica? Perché è chiaro che i partiti – tanto più in quanto avranno con frequenza la possibilità di cambiare gli effettivi della dirigenza pubblica (che scadranno ogni 4 anni, mentre le legislature durano 5, e i vertici delle autorità 7!) – tenderanno a piazzare nei posti-chiave degli uffici persone di fiducia, piuttosto che persone brave. O al massimo, quando andrà bene, “brave persone di fiducia”.

Poi c’è una seconda “x”, ed è l’efficienza economica di questo meccanismo. Perché, una volta entrati nei “ruoli” dirigenziali – questa specie di grande vivaio nel quale i valutatori “pescano” -, i dirigenti o aspiranti tali se non otterranno incarichi perderanno una tombola di soldi dal loro stipendio, addirittura fino al 70% del massimo! E se il dirigente in parcheggio non si sottoporrà a un determinato numero minimo di selezioni e resterà senza incarico per sei anni, uscirà addirittura dal ruolo: cioè ricapitombolerà a funzionario, e dovrà andare a fare quel che serve dove serve.

Ora, immaginiamoci nel concreto un simile groviglio di discrezionalità: potrebbe anche funzionare, ma è molto molto molto più probabile che generi invece un ginepraio di cause. Già c’è da immaginarsi i Tar, che dovranno istituire sezioni dedicate al contenzioso amministrativo promosso dai dirigenti trombati contro i selezionatori. Anche perché se la sconfitta in una selezione comportasse – come, tanto per fare nomi, capita in Rai da sempre – dorate panchine d’ozio, ci sarebbero le file dei dirigenti speranzosi di essere scartati per potersi mettere a fare il doppio lavoro o semplicemente andarsene al mare. Ma se una bocciatura alla selezione comporta il taglio dello stipendio, si gioca sul pesante e in fondo si ledono anche dei diritti seri, forse con troppa leggerezza. E, tanto per restare all’esempio Rai, che esito ha avuto il “concorsone-sanatoria” per i precari? Una miriade di cause, che la Rai sta regolarmente perdendo.

È dunque probabile che questa riforma generi le efficienze, anche economiche, che si ripromette? Mica tanto: auguriamoglielo, ma probabile non è. Si dirà: basta prendere a modello i criteri adottati nel mondo privato. Errore. È un mito. Almeno nel nostro Paese tanti, troppi casi descrivono una realtà opposta. All’appello a una “Meritocrazia” salvifica – per citare il titolo del saggio di Roger Abravanel, già capo di McKinsey in Italia – si contrappone l’evidenza di carriere apicali in aziende private importantissime e spesso straniere costruite unicamente sul servilismo. È il format-Schettino, per citare l’indimenticato nome dello sciagurato (e più di lui le 32 vittime del naufragio) comandante della Costa Concordia.

Chiediamoci come mai un dirigente così palesemente inadeguato al ruolo (sia per quel che ha fatto, sia per quel che non ha fatto, come insegna l’episodio del “torni a bordo, c***o!”) sia riuscito a ottenere il comando della nave ammiraglia di una flotta straordinaria, controllata da una multinazionale americana, la Carnival. Cercando bene nella cronaca della tragedia del Giglio, la risposta è palese. Cosa fa, Schettino, navigando verso gli scogli, oltre a limonare con la malcapitata ragazza moldava? Telefona al Commodoro Palumbo, storico capo dei comandanti Costa, e gli dice scondinzolante: “Comandante, stiamo per passare davanti alla vostra isola, se si affaccia ci vede!”. E quello lo gela: “Ma che dici, Schetti’: io sto a Grosseto”, proprio con la noia di chi si libera di un petulante adulatore. Ecco la risposta della cronaca: mille, diecimila, centomila Schettini costruiscono la loro fortuna sul paziente lavoro da leccapiedi che esercitano nei confronti dei loro capi di cui si rendono dapprima servitori, poi confidenti e infine sostituti, se non altro per età. E ciò capita perfino nel privato. Figuriamoci nel pubblico e nella politica.

Auguri alla riforma Madia: bisognava provarci, e il tentativo contiene alcune coraggiose novità che vanno sostenute e promesse. Ma attenti, attentissimi alle incognite.