Al Forum Ambrosetti di Cernobbio il premier ha incoraggiato una forte riduzione del personale bancario nella misura di 150mila lavoratori nei prossimi 10 anni: circa la metà di quelli attualmente in servizio. I sindacati non si sono fatti attendere, minacciando lo sciopero generale. E’ arrivata poi la smentita del premier, che avrebbe alluso più che altro alla proliferazione delle poltrone di amministratori ed esponenti aziendali, benché tale giustificazione sia in fondo incompatibile con i numeri (150mila) e con la constatazione che un bancario su due è di troppo. I toni ora si sono un po’ smorzati anche grazie all’intervento dell’ABI. Sulla vicenda vorrei comunque fare alcune considerazioni.



Non mi stupisce più il “tempismo istintivo” con cui il premier cerca di cavarsi d’impaccio: alla vigilia di un referendum costituzionale che lui stesso ha personalizzato, con le quattro goodbanks (Nuova Banca di Etruria e Lazio, Nuova Cr. Chieti, Nuova Banca delle Marche e Nuova Cr. Ferrara), nate sotto una cattiva stella a fine 2015, tuttora in attesa di un acquirente da trovare entro il 30 settembre per evitare procedure di infrazione europee; con l’assenza di crescita certificata dall’Istat nel secondo trimestre 2016 rispetto al primo e un’esaltatissima revisione della variazione acquisita del Pil allo 0,7% (in luogo della precedente stima dello 0,6%) che, secondo i calcoli di Francesco Manacorda (Repubblica del 3 settembre 2016) sarebbe pari a poco più della metà della spesa in gelati consumati dagli italiani nel 2015 e che il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, si è presto affettato a ricondurre — con grande tatto — sostanzialmente ad arrotondamenti. Quale più ghiotta occasione di una passerella internazionale come il forum per scaricare tutta la responsabilità dei problemi del Paese su qualcun altro?



Il sistema bancario italiano è finito nell’occhio del ciclone internazionale più o meno da inizio anno, a causa soprattutto del peso delle sofferenze che incorpora. Al di là delle esagerazioni mediatiche, è importante rendersi conto, a mio avviso, che il problema avrebbe potuto e dovuto essere risolto almeno dal 2012, con la costituzione di una badbank vera e propria, come avvenuto negli Stati Uniti e nel resto d’Europa. Ma il Parlamento di allora gridò allo scandalo del Governo dei tecnici (Monti) al soldo delle banche, delle assicurazioni e dei forti poteri economici e si oppose a questa soluzione, con i risultati che oggi possiamo constatare. 



Mi limito solo a riassumerne alcuni: quattro banche locali fallite e risanate con i soldi dei risparmiatori, due banche locali salvate in extremis con l’intervento di un fondo specificamente costituito, azzerando praticamente il valore delle azioni, una grossa banca in difficoltà (Mps) che non può realisticamente chiedere un aumento di capitale per 5 miliardi capitalizzandone 0,7 agli attuali valori di mercato.

Detto questo, è inutile nascondersi dietro un dito: siamo di fronte ad una rivoluzione epocale del lavoro, che, sotto il nome di “digitalizzazione”, va molto più in là della semplice eliminazione della carta: si tratta del ripensamento di tutti i processi in chiave tecnologica, a partire dalla constatazione che ormai oltre il 50 per cento delle transazioni avvengono on line. La vecchia filiale si trasforma da centro amministrativo, dedicato ad operazioni tipicamente bancarie (esecuzione di bonifici, pagamento di imposte, prelievi, versamento di assegni, ecc.) in uno spazio nuovo, quasi “virtuale”, dedicato ad interazioni commerciali.

L’avvento dell’intelligenza artificiale sarà destinato ad incidere ancora di più alla radice: a San Francisco, ad esempio, è stato “assunto” il robot per comprendere e affrontare le cause legali, in grado di elaborare miriadi di dati: gli manca solo di recarsi fisicamente in tribunale. In tale contesto che cosa ne sarà del bancario tradizionale? Ha senso arroccarsi a difendere un idea statica di impiego, come nella canzone dei Gufi: “Io vado in banca, stipendio fisso, così mi piazzo e non se ne parla più“?

Esiste certamente un problema di redditività delle banche, dovuta ai tassi di interesse sempre più bassi, che non rendono più remunerativa la tradizionale attività di raccolta ed erogazione del credito. La differenza tra tassi attivi e passivi, cioè tra il costo della raccolta e i ricavi sui prestiti si riduce progressivamente, attestandosi, tra maggio e giugno, introno al 2%, comportando perdite — secondo stime effettuate dal Sole 24 Ore — di oltre 230 miliardi di euro dal 2008 ad oggi. 

Per questo gli istituti si spostano da diversi anni su attività più redditizie che derivano dalla vendita alla clientela di prodotti finanziari e soprattutto assicurativi. Qualcuno critica questa impostazione, proponendo di separare il modello tradizionale dagli altri, a tutela della collettività. E’ possibile? Con quale redditività per il modello tradizionale? “Venderemo tutto” diceva Jeff Bezos agli albori di Amazon. C’è riuscito.