La promessa del Governo per l’anticipo della pensione a chi ne sente il bisogno è in dirittura di arrivo. Dopo tanto discuterne ecco che si arriva al traguardo di una soluzione. Dal gennaio prossimo il pensionamento di vecchiaia richiederà 66 anni e 7 mesi per i lavoratori dipendenti e autonomi, 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti, 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome. Il nuovo sistema che si chiamerà Ape consentirà un anticipo per l’uscita dal lavoro fino a 3 anni e 7 mesi. Il beneficio riguarderà anche statali, co.co.pro. e partite Iva.
Il prestito per finanziare gli anni di uscita precedente alla scadenza naturale sarà di vent’anni e sarà garantito da un’assicurazione qualora il pensionato decedesse. Le rate saranno prelevate dalla pensione e naturalmente avranno un importo ragguagliato al tempo di anticipo programmato. Ad esempio, se si dovesse anticipare di un solo anno l’uscita, su un reddito di 1.000 euro l’aggravio sarà di circa 60 euro. I disoccupati, i disabili, i lavoratori che sostengono in casa disabili, coloro che svolgono lavori pesanti, come edili e infermieri, non avranno nessun peso finanziario riguardo alla rateizzazione dei costi: se ne farà carico lo Stato.
Un risultato animato da buon senso, che raramente si nota nel gestire materie delicate e scottanti. Si può infatti asserire che tutto sommato l’equilibrio dei conti previdenziali non è stato compromesso e si sono trovate le uniche possibilità disponibili. Il sottosegretario Nannicini si è dimostrato all’altezza del problema, così come i suoi interlocutori sindacali più pragmatici.
Era ora che si fornisse un’alternativa percorribile alla strada accidentata dell’acida riforma Fornero, che se ha dovuto riparare la gestione previdenziale allegra precedente, ha costretto i lavoratori più in difficoltà a digerirsi le stesse norme di lavoratori in condizioni diverse. La riforma di Fornero non ha tenuto conto delle differenze presenti nella galassia dei mondi del lavoro italiano.
Insomma, si è fatto un buon lavoro che va ora continuato, per colmare ogni difficoltà relativa alla vicenda previdenziale com’è per gli annosi temi riguardanti la previdenza integrativa che, pur essendo stata prevista come seconda gamba affiancata a quella pubblica rappresentata dall’Inps, non riesce a decollare a causa delle tasse troppo alte e per il farraginoso sistema previsto.
La soluzione Ape offre anche uno scenario inedito del comportamento del Governo Renzi e degli stessi sindacati. Per due anni il presidente del Consiglio ha rifiutato, talvolta sprezzante, il confronto; e invece in questo frangente ha proceduto a una vistosa e salutare inversione a U, a ragione della ridotta popolarità e delle accresciute difficoltà dell’Esecutivo.
Lo stesso vale per il Sindacato, che ha dovuto rendersi conto che non è un buon affare avallare l’allegra gestione dei Governi in ricerca di popolarità sui temi previdenziali, giacché inevitabilmente il conto salato con gli interessi lo avrebbero pagato ancora una volta pensionati e pensionandi.
Insomma, c’è da dire che le difficoltà fanno bene ai soggetti pubblici. Il Governo cerca così di smussare le asperità dimostrate negli ultimi anni a danno delle indispensabili rappresentanze sociali, mentre queste ultime possono procedere più concretamente nel misurarsi con la realtà, offrendo alternative ai singoli problemi in luogo dei soliti lenzuoloni di proposte, che possono dare al momento qualche soddisfazione, ma immediatamente dopo generano frustrazione per la conseguente inconcludenza.