Per motivi diversi, secondo gli interlocutori interessati, il tavolo sulle pensioni tra governo e sindacato tornerà a riunirsi in ritardo rispetto a quanto programmato. L’obiettivo è senz’altro quello di poter chiudere in modo positivo il confronto per inserire il tutto nella prossima Legge (ex) di  stabilità, attese le condizioni definitive di copertura.



Quello che intendo mettere in risalto è che Tommaso Nannicini e Giuliano Poletti hanno fatto e stanno facendo il miglior lavoro possibile nell’ottica e nel perimetro praticabili, di sicuro meglio del presidente dell’Inps più interessato al suo spazio di manovra quasi egotista, da cui le innumerevoli boeriate, che non a essere un civil servant alla Ciampi. Anzi va detto, onore delle armi, che Nannicini e Poletti da una parte stanno gestendo la relazione con l’Ue, come se fosse l’Uomo Nero. Dall’altra stanno “salvando” un Boeri oscillante tra la progettazione di un Inps diverso e una proposta di  riforma con target d’intervento da lui scelti dove condizioni di accesso, parametri di calcolo e risultati sono da impostazione assistenziale più che previdenziale. Il tutto spiegabile per quella caratteristica contabile che, ponendo l’Inps nel perimetro pubblico e quindi sotto l’occhiuta sorveglianza europea, ha determinato la creazione di un escamotage come l’Ape per offrire una soluzione chiesta da anni coram populo.



Ma i complimenti per la bravura nell’escamotage, forse ribattezzabile in escamotApe, si fermano qui pertre motivi. Questi tre motivi sono un j’accuse generalizzato, alla luce del fatto che se c’è il governo del fare (e Renzi si è trovato un fardello dove il “fare” deve superare accumuli di ritardi, ruggini e incrostazioni di rilievo) ci deve essere quel “plus” che deve sostenere quel governo di processi necessari a mantenere in navigazione e al meglio delle possibilità la nave Italia

In questo siamo tutti responsabili. Quando imprescindibili confronti critici in grado di dare avvio a respiri progettuali sono soverchiati da richiami di attenzione urlati, la ricerca di soluzioni ai problemi, intese come “politicamente buone”, finisce per deprivare il fare coprendolo di quei fattori che fanno la comodità – e in taluni casi l’impotenza – della nostra politica.



Primo motivo: bisogna risalire alla riforma Dini per capire come qui nessuno ha scoperto alcunché di nuovo, né sull’effetto equitativo e correttivo del metodo contributivo, né sulla progettualità legata all’assegno sociale, istituzionalmente non contributivo, ma finanziato dalla fiscalità generale. In particolare, non si è compresa (o si è fatto finta di non comprenderla)  la possibilità del contributivo nelle sue diverse accezioni di essere processore di sistema dotabile di una discreta geometria variabile in presenza di una volontarietà o gestita con opportuni addendi per le situazioni critiche del mercato del lavoro (vedi esodi, ristrutturazioni crisi aziendali e quant’altro).

Questo ad esempio è successo a fronte di un’evoluzione più che trentennale di un’economia che ha condotto il quadro del mercato del lavoro a registrare discontinuità, blocchi  e instabilità con effetti interruttivi, dove la contribuzione figurativa ha dato assist parziali. Lo stesso mercato, più volte dissestato da lunghe congiunture sfavorevoli e obbligato alla necessaria sostenibilità di sistema, ha richiesto quell’allungamento dell’età lavorativa e quell’irrigidimento sulla flessibilità (evidenziatosi anche in Europa) che la Riforma Dini aveva ampliato alla luce del raggiungimento di soglie minime maturate, obbligatorie.

Tale contesto ha comportato effetti controversi, tanto con benefici di miglior trattamento pensionistico (più alla luce di stabilità d’impiego e progressione di carriera), quanto con disagi profondi essendo lo stesso miglior trattamento poco concretizzabile sia per le qualifiche basse, sia per i disoccupati in età avanzata. Risultato: un puzzle disarmonico con crescenti aree di criticità demografiche/reddituali  il cui esito è oggi sotto gli occhi tutti ed è – alla luce dei provvedimenti che appaiono delineati – un problema di tutti.

Secondo motivo: finché non si modifica l’attuale interrelazione tra previdenza e assistenza concentrate istituzionalmente nell’Inps, sia come ente gestore che come oggetto-soggetto di bilancio – interrelazione pervenuta a effetti perversi -, gli interventi prodotti anche nella fase corrente difficilmente sono risolutivi di squilibrio, bensì di sola sistemazione e assestamento. Il variegato arcipelago di posizioni – che ha generato nel tempo altrettante forme di sostegno – è fonte di condizionamenti che impediscono, senza una forte volontà politica e progettuale, di raggruppare in modo coerente, modificare in modo univoco e non equivoco questa eterogeneità per approdare a una nuova formulazione de minimis e a scelte di fiscalizzazione o meno. Altrimenti non si potrà dar torto a Feltri, per il solo motivo che non piacciono i suoi gatti. 

Terzo motivo: il mancato riscontro della historia magistra vitae dei nostri avi impatta nel rinnovare errori, senza al contrario mettere in risalto i pregi della vituperata Riforma Fornero che ne ha, pur essendo incappata in un “errore umano” (come si suol dire del pilota di un aereo atterrato non proprio bene). E il maggior pregio è quello citato nel primo motivo: la possibilità di modulare il contesto contributivo al fine di favorire e sostenere la portante di sistema, ovverosia il montante finale. La somma totale di tutto il versato che darà origine alla rendita e alla sua spalmabilità per gli anni a venire è e deve essere lo strike target sempre, che rende relativa la presenza di un vincolo, esteso o meno alla  permanenza, e/o di qualsiasi irrigidimento riguardante la flessibilità.

E qui – vexata quaestio – arriviamo all’Ape. Ho sempre avuto sin dal primo momento perplessità che sono ulteriormente cresciute in presenza dei primi squilli di tromba sul sistema bancario. In uno degli ultimi incontri in cui si è discusso di scenari prossimi futuri per le banche emerge una componente di fondo data dalle nuove frontiere che apre la banca digitale con meno sportelli e meno addetti e più device, e una di superficie con la riduzione generalizzata dei costi per recuperare redditività interna. Totale: dai 30 mila ai 50 mila addetti da esodare in prossimità della pensione in prima battuta, o in seconda con l’estensione del fondo esodi portato da 5 a 7 anni e da volontario a obbligatorio.

Paradosso: se non viene modificato il contesto normativo del fondo che va a seguire, in caduta, quello normativo previdenziale, o se le banche non pagheranno i costi, dovranno essere gli addetti espulsi a doversi pagare l’anticipo temporale in una partita di giro con il proprio datore di lavoro, se vi sono accordi di secondo livello. Oppure a fargli fare conto economico ove questi accordi non vengano firmati.

E in tutto questo marchingegno c’è un onere non di poco conto, già noto per la cosiddetta Ape volontaria, ma ancora sfuggente per le altre tipologie. Onere sul quale invito a una riflessione generalizzata poiché gli effetti li vedremo e senza cambiare i parametri predetti si riverbereranno su tutti i cicli congiunturali a venire in termini di potere di acquisto di beni, ma soprattutto di servizi per la terza/ quarta età. Con un rischio: quello di un futuro capo del governo che ravvisi tra anni la necessità di ripristinare un’integrazione al reddito proposta da un futuro capo dell’Inps.

Ed ecco come funziona. Se io vado in pensione anticipata a partire dai 63 anni produrrò minori contributi e quindi minori incassi su 3 e 7 mesi per arrivare a un minore montante alla partenza della pensione vera e propria . Tutto ciò, almeno fino al 2018, a legislazione corrente sull’aspettativa di vita. Questi 3 anni e  7 mesi, allungando la mia percepibilità di assegno, lo abbasseranno, perché minore montante finale e maggiori anni sui quali distribuire il primo abbassano il valore dell’assegno.

Una volta maturato il requisito di vecchiaia, le pensioni si abbasseranno ulteriormente per tre componenti: a) rimborso del prestito che ha permesso di vivere da pensionati attualizzati a partire dall’anno di anticipo; b) il costo dello stesso; c) il costo della polizza per garantire la restituzione del capitale prestato. Il tutto spalmato sull’arco di vent’anni.

Che fortuna! Se lo stesso Nannicini ha detto che si tratta di una sperimentazione, Al Pacino, come in un film d’annata, potrebbe rispondere: “Che te lo dico a fare?”.