Mi è capitato di leggere con molto interesse l’intervista al fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, apparsa su Repubblica lo scorso 30 agosto.
In occasione del viaggio in Italia, oltre alle visite ufficiali, Zuckerberg ha voluto rispondere ad alcune domande rivolte dagli studenti della Luiss, che mi hanno fatto nuovamente riflettere su uno dei temi più appassionanti, almeno per me: dove è diretto il mondo del lavoro? Quale sarà il futuro modo di lavorare, forse non troppo lontano?
C’è ovviamente una grossa aspettativa nei confronti delle nuove tecnologie di cui, per quanto ci si sforzi, non si riesce mai a focalizzare gli orizzonti: si tratta di strumenti a servizio di attività consolidate, semplici o complessi che siano, o di una mutazione genetica del lavoro stesso e, in fin dei conti, della natura umana?
Il produttore di macchine agricole Cnh Industrial, ad esempio, ha realizzato un prototipo di trattore senza guidatore che avrà, come è facile immaginare, forti impatti sull’agricoltura. Fine delle lunghe e faticose ore di lavoro nei campi: in futuro la macchina agricola consentirà di operare senza contadini, organizzando l’attività in tempo reale, persino reagendo automaticamente alla variazione delle condizioni climatiche. Ma che ne sarà della cultura contadina, quella che nasce anche dal sudore dei campi? Qualcuno potrebbe obiettare che un passaggio simile si è già verificato dall’aratro al trattore, o dalle mondine alle trebbiatrici, ma non si tratta, a mio parere, della stessa cosa, poiché in questo caso l’uomo sembrerebbe destinato ad essere integralmente sostituito dalle proprie estensioni tecnologiche.
E’ interessante, a distanza di più di mezzo secolo, rileggere le osservazioni di McLuhan sull’argomento: “L’elettricità ha ridotto il globo a poco più di un villaggio […]. Ora che —dopo l’avvento dell’energia elettrica — il nostro sistema nervoso centrale viene tecnologicamente esteso sino a coinvolgerci in tutta l’umanità e ad incorporare tutta l’umanità in noi, siamo necessariamente implicati in profondità nelle conseguenze di ogni nostra azione […]. Dobbiamo intorpidire il nostro sistema nervoso centrale ogni volta che viene esteso e scoperto […] perciò l’era dell’angoscia dei media elettrici è anche l’era dell’inconscio e dell’apatia”.
Naturalmente, fermarsi ad un certo punto, o addirittura tornare indietro sarebbe una risposta del tutto inadeguata al cambiamento, che si preannuncia rivoluzionario.
Tornando a Zuckerberg, sono invece rimasto sorpreso di quanto il metodo suggerito dalle risposte alle domande degli studenti sia, per così dire, tradizionale. Eccone i cardini.
1. Non c’è svantaggio territoriale che possa costituire una barriera invalicabile all’azione umana, come spesso si sente dire a proposito dell’Italia. Zuckerberg cita l’esempio dell’amico Daniel Ek, cofondatore di Spotify, che è europeo e del fondatore di Musixmatch che è italiano.



2. Quali qualità occorrono? “Nessuno ha successo lavorando da solo — cito da Repubblica —. Essere coscienti che nulla va mai come previsto. E’ una strada lunga, piena di imprevisti”. Certo la genialità aiuta, ma non può fare a meno di una strada percorsa insieme ad altri in una relazione non solo competitiva, dove non si sa in partenza il punto di arrivo; la strada, insomma, si apprende man mano.
3. Non si è mai fatto abbastanza: “possiamo sempre fare di più”. Rammentando la sua personale esperienza familiare, Zuckerberg racconta di essere cresciuto con l’idea di “cercare di avere un impatto positivo in questo mondo” e di voler trasmettere questi valori a sua figlia. Direi che questo è un punto fondamentale: un risultato positivo non si misura esclusivamente in termini di performance economica, ma in un credo personale, che si cerca di far proprio e di trasmettere agli altri.
4. Qual è la metafora dell’imprenditore? La figura di Enea, che lascia Troia per fondare una nuova città “è la vicenda di una persona che ha una missione ben più grande di lui. Una missione piena di difficoltà che non porta a termine da solo. Un mito, certo, ma anche una metafora di un vero imprenditore”. Non si ragiona solo sul fatturato, ma si vive (e si lavora) con un  compito più ampio. Mi sembra un sogno comune a gran parte della new economy: da Elizabeth Holmes, fondatrice di Theranos, azienda che consente di effettuare test clinici prelevando poche gocce di sangue da analizzare tramite software, a Elon Musk, ideatore di Tesla e pioniere dell’intelligenza artificiale.
5. Quali sono gli errori che si possono compiere? “Pensare di dover fare tutto da soli e dover partire da una grande idea. Le idee si formano strada facendo, cambiano, evolvono”. Ossia realisticamente, lasciarsi guidare in ogni passo da persone e cose che capitano.
Parole tradizionali, come ho detto prima, perché portano alle radici del moto intimo e personale di ognuno, che rappresenta in fondo il segreto di ogni vera innovazione, anche tecnologica e che forse può consentire di evitare di cadere in un eccessivo torpore, come paventava McLuhan.

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