La produttività dell’economia Italiana continua ad arretrare, sia nella produzione di beni che di servizi rispetto ai nostri concorrenti europei collezioniamo da tempo risultati in rosso. Una debacle clamorosa che sta erodendo gli spazi tanto faticosamente conquistati dagli italiani negli anni 60-90, dai tempi del boom economico che precedette e accompagnò lo sviluppo sociale. I dati ultimi ci dicono che la crescita ha raggiunto uno striminzito obiettivo che dovrebbe farci interrogare sul perché di scadenti risultati così prolungati, e ci dovrebbe far riflettere su cosa siamo disposti a fare davvero per riguadagnare il terreno perduto.
La produttività dell’economia italiana dal 2000 a oggi è progredita solo di un punto percentuale, mentre la media dei nostri concorrenti europei raggiunge il 16%. Nel manifatturiero, punta di diamante della nostra economia, a fronte di una crescita italica del 17%, nello stesso periodo la Germania è la Spagna si attestano a 35 punti in più, il Regno Unito a 43, i francesi a ben 50% di crescita. D’altronde il Pil, inchiodato allo zero, ben racconta la condizione pessima della nostra salute economica, sociale, politica. E gli ultimi Istat sull’occupazione, si aggiungono eloquentemente e coerentemente agli altri dati citati.
Si potrebbe fare riferimento a molteplici fattori che agiscono da freno a mano. Ma credo che occorra fare subito qualcosa di concreto che dia il senso della presenza di una nuova coscienza, in grado di porsi in alternativa al lassismo degli ultimi 20 anni. I fattori tecnico-organizzativi troveranno le proprie soluzioni, se nuovi orizzonti morali accomuneranno operatori politici e corpi intermedi. La consapevolezza del momento che viviamo, e del compito di attori di rilievo generale dei soggetti sociali, sono il viatico più sicuro per il risultato che attendiamo da tempo.
Il nuovo presidente di Confindustria ha dato un’indicazione concreta per dare un aiuto all’economia, alle imprese, ai lavoratori. Ha riproposto l’annosa questione del legame stretto tra la produttività e il salario che ovviamente non si può che sviluppare e valutare su scala aziendale. Questo tema storicamente ha avuto oppositori strenui a causa della concezione classista che rifiuta la collaborazione tra impresa e lavoratore che ostacolerebbe lo scontro di classe: per costoro il salario si conquista attraverso il conflitto e non partecipando all’organizzazione del lavoro in azienda.
Ma negli ultimi anni la dialettica molto vivace dentro le confederazioni aveva già favorito intese con le associazioni imprenditoriali pro accordi aziendali. Non è un caso che vari governi (a esclusione di quelli influenzati dalle enclave classiste) hanno favorito questa impostazione, con il taglio vigoroso delle tasse sul salario contrattato in azienda. Pure il Governo Renzi ha rilanciato questa politica, forte anche della flessibilità ottenuta dall’Ue, e fa intendere di volere aumentare il budget finanziario, alzando il tetto di copertura di reddito fino a 70 mila euro del lavoratore e la quota salariale interessata di premio aziendale.
I sindacati sembrano tiepidi quando non contrari, e infatti chiedono che anche il salario nazionale sia detassato. Nobile intento, ma sembra un modo per riportare la discussione a molti anni fa, pur di non farne nulla e smentire la filosofia del 1993 sui contratti, rafforzata con gli accordi interconfederali di questi ultimi anni.
Vincenzo Boccia ha grande volontà di ripristinare relazioni industriali coerenti con gli accordi innovativi degli anni scorsi, ma ha margini di manovra stretti senza un accordo coerente sul salario di produttività. Lo stesso rinnovo del contratto nazionale dei meccanici pesa come un macigno nelle relazioni sindacali confederali. Federmeccanica, scottata dalla dolorosa e costosa fuoruscita Fiat, non intende tornare indietro di anni nella contrattazione e vuole proseguire nell’accentuazione della contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale.
La situazione attuale sarebbe favorevole e non solo per la disponibilità del Governo, ma anche per una condizione complessiva con un’inflazione che è a zero e con contratti precedenti che, regolati dall’Ipca per il recupero dell’inflazione, hanno garantito molto di più di ciò che l’inflazione ha eroso. Non si capirebbe la logica, qualora non si dovesse pervenire a un accordo che annunci la cosa più semplice di questo mondo: lavoratori e imprenditori si impegnano a redistribuire equamente i profitti nuovi che potranno venire dalla capacità delle singole aziende di guadagnare il mercato perché i propri prodotti sono di qualità e competitivi e arrivano tempestivamente al committente che li compra. Per questo obbiettivo regoleranno gli orari in azienda, così come l’utilizzo e l’implementazione delle professionalità, così piegheranno l’organizzazione del lavoro al successo dell’azienda.
In un Paese con tutti i fattori economici compromessi, si dovrebbe ragionare così, al di sopra delle ideologie, codardie, e piccoli calcoli da piccolo cabotaggio.