Com’è noto, la scorsa settimana la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità dei tre quesiti referendari proposti dalla Cgil, bocciando il referendum relativo alla materia dei licenziamenti e ammettendo quello sui “voucher” e quello sulla responsabilità delle imprese appaltatrici. Se sono (abbastanza) risapute le questioni sottese al referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, lo stesso non può dirsi anche per le tematiche relative ai due quesiti ammessi.
Il primo si riferisce al cosiddetto lavoro accessorio. Questo tipo di lavoro, introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dalla Legge Biagi (D.Lgs. n. 276/2003), è stato successivamente oggetto di più interventi normativi, l’ultimo dei quali contenuto nel Jobs Act (più precisamente, nel D.Lgs. n. 81/2015). Inizialmente, la legge prevedeva che il lavoro accessorio potesse essere prestato soltanto da soggetti a rischio di esclusione sociale, studenti, casalinghe o pensionati, che potesse essere utilizzato esclusivamente per determinate attività occasionali (quali lavori domestici, assistenza domiciliare, ripetizioni private, piccoli lavori di giardinaggio e di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, manifestazioni sociali, sportive, culturali e caritatevoli e collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza) e che i lavoratori non potessero complessivamente guadagnare più di 3.000 euro all’anno. A seguito delle modifiche legislative successivamente intervenute e, da ultimo, dell’entrata in vigore del Jobs Act, il lavoro accessorio ha perduto il limite dell’occasionalità, si può usare in qualsiasi contesto produttivo e ha un tetto massimo di 7.000 euro all’anno.
Il lavoro accessorio si caratterizza anche per il particolare meccanismo di pagamento del compenso: il datore di lavoro che intenda utilizzare una prestazione di lavoro accessorio deve acquistare dei buoni (i “famosi” voucher), del valore nominale di 10 euro presso le rivendite autorizzate (sedi Inps, banche, tabaccai, uffici postali). I voucher vengono poi utilizzati per pagare il lavoratore, che dovrà rivolgersi al concessionario (Inps e Agenzie per il lavoro) per ricevere l’effettivo pagamento, decurtato dalle trattenute previste per legge (il valore netto è di 7,5 euro).
Secondo i dati dell’Inps, a seguito delle modifiche introdotte dal Jobs Act (i cui detrattori parlano di “liberalizzazione” del lavoro accessorio), l’uso dei voucher è notevolmente aumentato. Per diversi commentatori questo dato sarebbe indice di una maggior precarizzazione del mercato del lavoro e nasconderebbe il tentativo di occultare il lavoro “in nero”: anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei voucher sono utilizzati nei settori alberghiero e della ristorazione, si teme che molti datori di lavoro retribuiscano con i buoni solo una parte delle ore di lavoro effettivamente prestate, che per il resto verrebbe pagato in nero.
Per questi motivi il quesito referendario mira ad abrogare del tutto la disciplina del lavoro accessorio, con la conseguenza che in caso di successo del referendum tutti i datori di lavoro (compresi i privati che hanno bisogno di una colf) dovrebbero ricorrere ad altre forme di lavoro ritenute più facilmente “controllabili” (ad esempio le prestazioni di lavoro autonomo occasionale, i contratti a termine di breve durata, il lavoro somministrato, il lavoro intermittente, ecc.).
Il secondo quesito ammesso si riferisce invece alla disciplina della responsabilità solidale del committente in materia di appalto, contenuta nell’articolo 29 della Legge Biagi e modificata da ultimo dalla Legge Fornero. Questa norma originariamente stabiliva che l’impresa (c.d. committente) che affidi lo svolgimento di un’opera o di un servizio a un’altra impresa (appaltatore) dovesse rispondere assieme a quest’ultima (c.d. responsabilità solidale) dei danari dovuti a titolo di retribuzioni, Tfr e contributi ai lavoratori dell’appaltatore per l’opera e i servizi effettuati. In pratica, se l’appaltatore non pagava, doveva intervenire il committente (il quale, dopo aver pagato, poteva provare a rivalersi sull’appaltatore).
La norma era evidentemente volta a tutelare i dipendenti delle imprese appaltatrici scarsamente affidabili e a indurre i committenti a scegliere gli appaltatori non solo in base al criterio del prezzo più basso, ma valutando anche la serietà e solidità economica del fornitore. La Legge Fornero (precisamente l’art. 4, comma 31, della legge n. 92 del 2012) è intervenuta in materia escludendo, anzitutto, la solidarietà tra committente e appaltante qualora il Contratto collettivo nazionale di lavoro abbia “individuato metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti“. La Legge Fornero ha inoltre introdotto il “beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore“. Ovvero: il lavoratore che agisce per il recupero del suo credito di lavoro deve prima agire nei confronti dell’impresa appaltatrice e solo dopo un esito infruttuoso può farsi pagare dal committente.
Le predette modifiche introdotte sono state ampiamente criticate. In via di estrema sintesi, la prima modifica è stata criticata perché ritenuta troppo generica (quale Contratto collettivo nazionale di lavoro deve assumere rilievo? Quello applicato dall’appaltatore o quello applicato dal committente?) e perché si teme che i contratti collettivi possano introdurre dei metodi di controllo inidonei a evitare “fregature” per i lavoratori. La seconda modifica è accusata di aver reso più difficile e oneroso per il lavoratore ottenere il pagamento di quel che gli è dovuto (fino a che punto si devono spingere le azioni giudiziali del lavoratore prima di poter essere pagato dal committente? E se l’appaltatore non si riesce più a trovare?). Il quesito referendario mira ad abrogare le modifiche introdotte dalla Legge Fornero e a ripristinare il testo originario della Legge Biagi.
In conclusione: i due quesiti ammessi vertono su temi complessi e delicati, che coinvolgono comunque un grandissimo numero di lavoratori. Scontata la querelle circa l’idoneità o meno dello strumento referendario a risolvere i problemi sul tappeto, c’è da chiedersi se la materia sottoposta al vaglio popolare questa volta sarà in grado di calamitare davvero l’attenzione (visto che nel 2003 il referendum sull’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non raggiunse il quorum).