Non volendo assolutamente offrire un ulteriore elemento alla polemica, molto politica e ideologica, circa l’utilizzo dei voucher, cerco di limitare queste poche righe a un contributo di merito, con una considerazione generale finale. Credo sia giusto partire da alcuni elementi di realtà, senza tediare con ulteriori cifre e dati. I voucher sono esplosi per tre semplici ragioni. La prima riguarda la conoscenza che anno per anno, mese per mese, di passaparola in passaparola, viene divulgata della convenienza dello strumento. Quindi un fattore di aumento può essere definito fisiologico, per effetto di un suo naturale evolversi. Seconda ragione: sicuramente l’allargamento dell’ambito di applicazione ha generato un incremento, forse nella forma più distorta. Infine, credo la ragione più rilevante di questo incremento sia l’applicazione delle norme di maggiore controllo sull’utilizzo dei voucher.
Mi spiego meglio su questo aspetto, sperando che venga perdonata la banalità. Come funzionavano i voucher prima che questa estate il decreto correttivo del governo implementasse la cosiddetta tracciabilità? Il negoziante di turno che durante un periodo di saldi, o nel fine settimana, avesse avuto bisogno di un’addetta alle vendite per diverse ore (giusto per fare un esempio), acquistava un voucher, solo uno, così da essere in regola per un’eventuale ispezione. Con i maggiori controlli introdotti, il datore di lavoro deve dichiarare preventivamente non solo il nome, cognome e giorno della prestazione, ma anche l’orario di inizio e fine della collaborazione occasionale. Qual è l’effetto di tutto questo? Che si consumano più voucher. Perché se prima ne veniva acquistato solo uno e il resto delle ore venivano fatte comunque e retribuite in nero – ma avendo una sorta di copertura -, adesso invece tutte le ore vengono coperte dai voucher in quanto tutta la durata della collaborazione deve essere dichiarata prima del suo svolgimento.
Si è parlato inoltre del rapporto tra voucher e salario minimo. Credo che possa essere una discussione valevole di approfondimento. Il costo per un’ora di collaborazione accessoria è di 10 euro per il datore di lavoro, di cui 7,50 finiscono alla/al lavoratrice/tore. Per fare un semplicissimo esempio, tratto sempre dalla vita reale, una babysitter (che si prende cura di un bambino di un paio di anni), se assunta come dipendente, alle condizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro delle collaborazioni domestiche al livello BS, andrebbe a percepire all’ora poco più di 6 euro lordi. Ovviamente però il costo del lavoro per la famiglia sarebbe notevolmente superiore ai 10 euro, anche perché in aggiunta ci sono una serie di costi indiretti dati dalla tenuta amministrativa della collaboratrice domestica, che con la semplicità gestionale di voucher non avremmo. Inoltre, considerata la tipologia, spesso le babysitter o chi offre qualche ora di ripetizione ai bambini più grandi, sono ragazze o ragazzi ancora attivi nel percorso scolastico o accademico. L’esenzione fiscale dei voucher è un vantaggio anche perché non costituendo reddito evitano di generare un incremento delle tasse universitarie, con il paradossale effetto che se un giovane svolge lavoretti per pagarsi gli studi rischia di pagare più tasse universitarie proprio per effetto del maggior reddito conseguito.
Quindi, i voucher servono, non solo alle imprese o alle famiglie, ma ai lavoratori (in particolare giovani). Ovviamente vanno limitati e circoscritti ad alcune attività, soprattutto perché in queste collaborazioni occasionali, svolte per lo più da giovani, la componente formativa legata in particolare alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è sostanzialmente assente. È opportuno quindi limitare l’utilizzo a settori dove il rischio infortuni è limitato e la componente formativa e di conoscenza esperienziale è bassa.
La soluzione a mio avviso non è abolirli, ma trovare un’ipotesi di utilizzo equilibrata, affinché questo possa essere uno strumento che generi delle opportunità e non si trasformi in una trappola, di viziosa oppressione o costrizione. Credo infine che questo binomio sia uno dei grandi dilemmi che ci porteremo per il 2017 sul tema del lavoro dei giovani. Per esempio, ancora si discute se i giovani devono andare all’estero o no: al di là dell’investimento perso dal sistema Paese in educazione, la questione è se per un giovane emigrare è un’opportunità o una costrizione. Costrizione non in termini di sacrificio, perché i sacrifici li hanno fatti i nostri nonni e non vedo perché i giovani di oggi non li debbano fare, ma costrizione intesa come impossibilità a tornare, in quanto non viene riconosciuta e valorizzata la propria professionalità. I giovani se vedono un’opportunità all’estero devono partire e se questo Paese vede nei suoi giovani delle potenzialità non li deve limitare, ma anzi diventare lui stesso attrattivo affinché dopo un’esperienza di qualche anno fuori dai propri confini sia in grado di riaccogliere i suoi ragazzi.
Nelle valutazioni, scelte e decisioni che verranno prese in tema di mercato del lavoro e giovani la speranza è che si valuti bene come favorire l’emergere di opportunità, perché molti ragazzi non chiedono altro che questo.