Licenziare per fare più utili, e non per evitare la crisi aziendale: secondo la Corte di Cassazione è legittimo, e con una sentenza senza precedenti l’ha deciso respingendo “con rinvio” una decisione della Corte d’Appello di Firenze che aveva ordinato a un’azienda alberghiera di lusso, che aveva licenziato un suo dirigente perché non più necessario all’organizzazione aziendale, di pagargli 15 mensilità d’indennizzo. Nossignore: secondo la Cassazione, “ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa”.
Cose del genere dimostrano che la magistratura in Italia non è, non è mai stata né mai potrà essere una soluzione ai mali del Paese, essendone in realtà una pesante concausa. Mentre giustamente una parte del Paese s’interroga sull’iniquità dei voucher – sul quale incombe un referendum – e sui gravi limiti dimostrati dal Jobs Act; mentre il Papa richiama continuamente al valore sacrale del lavoro; mentre il presidente Mattarella esordisce nel suo discorso di fine anno con un forte appello per il lavoro, arriva la Cassazione – fresca fresca – e stabilisce che licenziare per aumentare il profitto si può.
Leggiamoci un momento l’articolo 41 della Costituzione, ma per intero: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Chiaro, no? Inequivocabile! L’utilità sociale è una premessa inviolabile per il ruolo dell’impresa. E cosa c’è di più utile, socialmente, del lavoro? E il diritto al profitto, che a sua volta è imprescindibile per l’attività d’impresa, non deve forse esprimersi entro i “programmi e i controlli opportuni” che la legge determina per indirizzare e coordinare l’attività d’impresa “a fini sociali”?
I giudici presuntuosi e ignoranti, che invadono il campo del legislatore, possono partorire mostri. E questa sentenza è una tipica figlia dell’assurdo. La nostra Costituzione – non a caso invisa ai “cattivi maestri” della Jp Morgan tanto cari a Matteo Renzi, che la inserirono a pieno titolo, nel 2013, tra le costituzioni europee troppo socialiste da cambiare – stabilisce linee-guida che nel concreto la politica si è finora incaricata, con discreto successo, di applicare, affidando al welfare il ruolo di “ammortizzatore sociale”: il welfare consente cioè alle aziende di tagliare bruscamente, quando occorre, i loro costi del personale, senza mandare di punto in bianco e senza alcun paracadute in mezzo alla strada i lavoratori.
Il paracadute dei dirigenti si chiama indennizzo, e alla sua erogazione le aziende concorrono al 100%, in cambio del fatto che da sempre il dirigente va indennizzato, ma non può pretendere di essere riassunto; il paracadute dei lavoratori si chiama con molti modi diversi – Cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, eccetera -, ma entrambi servono a fare gli interessi del sistema collettivo nazionale: l’interesse dei licenziati, che grazie al welfare o agli indennizzi aziendali risentono, sì, della perdita del posto, ma non nella misura e nella drammatica impellenza che altrimenti dovrebbero sostenere; ma in fondo anche l’interesse dell’azienda che li licenzia, o comunque del ceto imprenditoriale, perché solo da un sostegno al reddito collettivo nei periodi di crisi – quale, in concreto, sono tutti gli interventi economici che rientrano nel’accezione di “welfare” – si mantiene attivo quell’adeguato livello di domanda interna che serve a far stare in saluta l’economia di un Paese.
E invece adesso la Cassazione se ne viene e stabilisce che il lavoro non conta, che il profitto viene prima. Con ciò affidando unicamente alla discrezionalità del singolo imprenditore la valutazione di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato per massimizzare il profitto, se tagliare posti di lavoro, magari – perché no – fare mobbing e costringere la gente ad andarsene per la disperazione o imporre lettere di dimissioni firmate in bianco a chiunque venga assunto e così via: il bestiario dei cattivi modelli seguiti talvolta dalle imprese è pieno di brutti esempi.
Intendiamoci, gli imprenditori non sono cattivi, né buoni, non diversamente cioè da quanto siano buoni o cattivi tutti gli altri “gruppi sociali” del Paese. Ma appunto: non sono neanche “più buoni” della media, tanto da meritare che gli venga affidata questa potestà, questa autonoma discrezionalità. È giusto che sottostiano a regole. Nessun medico, nessuna autorità politica li ha costretti a intraprendere: lo fanno consapevoli degli obblighi che si accollano. E fanno il bene della società perché creano lavoro e quindi valore per il Sistema: ma, appunto, non devono essere lasciati nella possibilità di creare valore solo per se stessi, massimizzando il profitto senza altre simmetriche responsabilità, essendo poi essi i principali se non gli unici percettori del profitto aziendale, reinvestito in Italia con tassi percentuali largamente inferiori a quelli medi europei.
Sfoltiamo, piuttosto, gli oneri burocratici che complicano la vita alle imprese: ma non lasciamogli carta bianca nel decidere quando e quanto sia giusto licenziare in nome del profitto. Prima viene il lavoro: per la Costituzione è chiarissimo, perché per la Cassazione no?
P.S.: Una bella notizia, di segno sanamente opposto, l’ha data La Stampa, raccontando la storia della Convert, un’azienda del settore delle energie rinnovabili, che avendo triplicato, nell’anno appena conclusosi, il fatturato e gli utili, ha regalato unilateralmente ai dipendenti due mensilità extra, un regalone di Capodanno: “I dipendenti”, ha spiegato l’imprenditore Giuseppe Moro, “sono la nostra vera ricchezza, se chiediamo il loro impegno per raggiungere obiettivi e li raggiungiamo trovo naturale che vadano ricompensati”. Sante parole: ma la Cassazione sarà d’accordo? E inoltre: sarebbe interessante sapere quale modello la Confindustria preferisce. Quello dell’albergo che licenzia per massimizzare il profitto o quello della Convert?