Una delle misure più discusse della Legge di bilancio – ora quasi interamente silenziata dal dibattito sulla legge elettorale – è l’Anticipo finanziario a garanzia pensionistica (Ape), introdotto in via sperimentale per il periodo 1 maggio 2017-31 dicembre 2018. Può accedervi chi ha compiuto 63 anni di età, matura il diritto alla pensione di vecchiaia entro 3 anni e 7 mesi, ha almeno 20 anni di contributi versati e ha una pensione – al netto dell’ammortamento della rata Ape – pari ad almeno 1,4 volte il trattamento minimo Inps (circa 700 euro, se si considerano gli importi 2016). Si tratta sostanzialmente di un prestito che viene acceso con un finanziatore (una banca, o probabilmente anche una società finanziaria), restituito con rate mensili in 20 anni a partire dalla data di decorrenza della pensione ed è assistito da una polizza assicurativa obbligatoria in caso di premorienza.
Molte misure attuative saranno prese con uno specifico decreto del Presidente del consiglio dei Ministri, che getterà luce anche sull’accordo-quadro tra ministero dell’Economia e del Lavoro, da una parte, e Abi-Ania, cioè le associazioni rappresentative di banche e assicurazioni, dall’altra, per definire tassi di interesse e tassi di premio assicurativi. Fino alla sua emanazione sarà abbastanza difficoltoso stabilire con certezza i costi del finanziamento, salvo prendere a riferimento i tassi del credito al consumo – espressamente richiamato dalla norma – che, per i crediti personali, si aggirano in media intorno al 10%.
Viene istituito un “Fondo di garanzia per l’accesso all’Ape” presso il ministero dell’Economia e delle Finanze con una dotazione iniziale di 70 milioni di euro per il 2017, attinti – forse un po’ subdolamente – dal fondo di garanzia per l’accesso ai finanziamenti per le imprese con numero di dipendenti inferiore a cinquanta, costituito presso l’Inps. Il finanziamento viene escluso – come per certi aspetti ovvio – dal concorso alla formazione del reddito; tuttavia ciò può non essere indifferente per l’erario. L’uscita anticipata di lavoratori, infatti, in assenza di sostituzioni, comporterà una perdita di gettito fiscale e contributivo. A questo occorre aggiungere l’introduzione di un credito di imposta annuo del 50% dell’importo pari a un ventesimo degli interessi e dei premi assicurativi complessivamente pattuiti nei relativi contratti, per il quale, tra l’altro, non sono previsti limiti di spesa annui, configurando quindi un vero e proprio diritto soggettivo, che potenzialmente potrà incrementare la spesa.
Di tenore decisamente più assistenziale è l’Ape sociale, che consiste in un’indennità erogata a persone di almeno 63 anni particolarmente disagiate, pari all’importo della rata mensile della pensione all’accesso alla prestazione e comunque in misura non superiore a 1.500 euro. Si tratta in sostanza di un anticipo (Ape) finanziato direttamente dallo Stato, al verificarsi di certe condizioni, quali stati di disoccupazione o riduzione della capacità lavorativa del 74% con anzianità contributiva di almeno 30 anni, presenza di coniuge o parenti di primo grado conviventi affetti da grave handicap.
Diversamente dalla sorella maggiore, per l’Ape sociale è stimato il potenziale di accesso (circa 34 mila persone nel 2017, 43 mila nel 2018, poi a decrescere fino ad azzerarsi nel 2023) ed è fissato il limite di spesa (300 milioni di euro nel 2017, 609 nel 2018, 647 nel 2019, poi a decrescere fino a 8 milioni nel 2023), prevedendo quale clausola di salvaguardia il posticipo della decorrenza del trattamento pensionistico per rispettare il limite di spesa.
Naturalmente, vi sono rischi di carattere sociale, che le osservazioni alla relazione tecnica al provvedimento non mancano di rilevare, rappresentati soprattutto dalla pressione politica per estendere il beneficio, ricreando una nuova serie di salvaguardie esodati, ovvero da possibili ricorsi alla Corte Costituzionale di chi rimane a secco, magari patrocinati da sindacati sempre più attenti alle esigenze dei pensionati e sempre meno a quelle dei lavoratori, con l’effetto di moltiplicare la spesa, come nel caso del blocco delle rivalutazioni deciso dalla riforma Monti-Fornero, che rischiò di dissanguare le casse dello Stato.
A conti fatti, in sostanza, si continua ad aumentare la spesa pensionistica, nonostante il sospetto di manovre correttive richieste dall’Unione europea e previsioni di crescita al momento non floride.