REDDITO DI CITTADINANZA. Si è tornati a parlare di reddito di cittadinanza. L’avvio della sperimentazione finlandese di una sorta di “rendita” biennale di 560 euro/mese per alcuni disoccupati sorteggiati casualmente, le recenti polemiche politiche sulla legge delega per il contrasto alla povertà (che prevede una sorta di assegno sociale per gli indigenti) e i nuovi dati sull’aumento delle persone escluse dal mercato del lavoro e dal welfare hanno riacceso le braci di un dibattito piuttosto risalente e tecnicamente più complesso di quel che potrebbe sembrare.
La prima difficoltà è terminologica: al centro della discussione non vi è, quantomeno in questo momento, la preoccupazione di garantire per legge un salario minimo (in Italia non presente, ipotizzato nel Jobs Act, ma poi mai realizzato); neanche si tratta di definire nuove e diverse indennità di disoccupazione, forme di sussidio che nel nostro Paese sono solitamente su base assicurativa, ovvero pagate dal versamento dei contributi. Il confronto si gioca invece sull’opportunità politica, la ragionevolezza sociale e la sostenibilità finanziaria di una particolare forma di sussidio universale concesso e dimensionato dalla legge, avente lo scopo di assicurare la sussistenza di qualsiasi cittadino che si trovi in uno stato di indigenza.
È evidente che si tratta di una soluzione costosa e densa di implicazioni culturali e sociali. Per i sostenitori si tratterrebbe di un atto di equità, inclusione e redistribuzione delle risorse; per i detrattori, al contrario, di uno strumento demotivante, che si presterebbe a opportunismi che finirebbero per incoraggiare l’inattività dei percettori del reddito e non la necessaria ricerca di nuova occupazione e di migliori condizioni di vita.
L’eccessiva semplificazione è solitamente nemica della ricerca della verità. Anche in questo caso le due opzioni non sono “una nera e una bianca”; questo dilemma apparentemente semplice nasconde infatti ragionamenti, analisi (e forse ideologie) complesse. Queste strade divergono in conseguenza alla risposta alla domanda: la nostra società futura sarà ancora “fondata sul lavoro”?
Se il responso è positivo, facilmente ne deriva un’avversione al reddito di cittadinanza, poiché la centralità del lavoro nella vita delle persone, e quindi la previsione di un futuro con un mercato del lavoro più ampio di quello attuale, garantisce la sostenibilità del sistema di welfare che conosciamo. Certo, da correggere rispetto ad aspettative di vita più elevate, pesi di lavoro più leggeri, quantomeno fisicamente, competizione internazionale, ecc.; a ogni modo si tratterebbe di operare un restyling della previdenza e dell’assistenza sociale che già conosciamo. Se anche in futuro le prestazioni saranno pagate con il versamento dei contributi, il reddito minimo ha senso solo per fasce di popolazioni molto deboli, inabili al lavoro.
Al contrario, se si immagina un futuro nel quale, in esito alla crisi economica ancora in essere, alla violenza e spietatezza della competizione globale e alla sostituzione del lavoro delle persone con il lavoro delle macchine, sempre più intelligenti (la cosiddetta quarta rivoluzione industriale), il fattore “lavoro” sarà minore di quanto conosciuto finora, allora la riflessione sul reddito di cittadinanza assume tutt’altro rilievo. Non sarebbe possibile costruire il welfare attorno a versamenti contributivi sempre minori e non continuativi: in qualche modo bisognerà quindi garantire un’esistenza dignitosa a chi non lavorerà, redistribuendo il reddito generato da imprese sempre più multinazionali, tecnologizzate e ricche.
Gli esperimenti che si stanno conducendo in questo senso in Finlandia e nella Silicon Valley dimostrano che non si tratta di sfide futuristiche, da libro di fantascienza, ma di problemi sempre più attuali. È interessante notare come in entrambi i casi registi dell’operazione siano realtà che si potrebbero definire di centrodestra, quindi scevre da convinzioni classiste o pauperismo ideologico: il governo finlandese è, appunto, “azzurro” e gli imprenditori californiani non sono certamente dei nostalgici comunisti. Insomma, non si tratta delle versioni scandinave e statunitensi del Movimento 5 Stelle, che pure in Italia si è affermato come padrino politico della proposta del reddito di cittadinanza.
Come mai questa convergenza? I pentastellati giustificano la loro ricetta con argomentazioni certamente diverse da quelle che sempre di più convincono colossi come Google, Microsoft, Apple, ecc. della fondatezza di un reddito minimo garantito dallo Stato. Sarebbe per questo opportuna una riflessione più approfondita di cosa potrebbe diventare un istituto di questo genere, che, se da una parte contrasterebbe la povertà, dall’altra la renderebbe socialmente innocua, cristallizzandola sulla cifra monetaria stabilita per legge e così, contemporaneamente, evitando violenti (fisicamente e politicamente) malcontenti sociali e garantendo la disponibilità economica necessaria a non fermare i consumi, senza i quali le grandi imprese non potrebbero conseguire positivi risultati di bilancio.
In altre parole, il reddito di cittadinanza può finire per prefigurarsi come una grande operazione anestetica, conveniente più alle “élite” che allo “uomo comune”. Da che mondo è mondo, per il potere politico ed economico è sempre meglio un cittadino sedato da panem (reddito minimo) et circences (conseguente garanzia del consumo e quindi dell’ultimo smartphone, della pay tv, ecc.) che una persona che scalpita per migliorare la sua situazione, crescere socialmente, avere più riconoscimento.
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