Ho letto con interesse l’articolo di Sergio Luciano, pubblicato in data 3 gennaio, a commento (molto critico) della sentenza della Corte di cassazione n. 25501 del 7 dicembre 2016, con la quale è stato dichiarato legittimo un licenziamento irrogato – semplifico per comprendere – per assicurare un maggior profitto all’azienda. La vicenda, che riassumo brevemente, riguarda il caso di un dirigente licenziato dal suo datore di lavoro allo scopo di «rendere più snella la c.d. catena di comando e quindi la gestione aziendale». La Corte di appello di Firenze ha dichiarato illegittimo il recesso perché «motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto», visto che il datore non aveva dimostrato che tale operazione era finalizzata a «fare fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario». In altri termini, secondo il giudice di seconda istanza, un licenziamento finalizzato a ridurre i costi può essere giustificato solo alla luce di una difficoltà contingente e straordinaria cui l’azienda reagisce con la soluzione (che parrebbe essere estrema) dell’estromissione di un lavoratore.



La posizione della Corte fiorentina non è affatto nuova: già i “pretori d’assalto”, negli anni ’80, assimilavano la ricerca del profitto a una ragione individuale, soggettiva, che come tale non poteva configurare quelle ragioni oggettive che invece possono legittimamente giustificare un licenziamento; e di questa posizione si può trovare traccia in alcune sentenze, anche recenti, della Cassazione.



La sentenza in commento ha ribaltato quella della Corte di appello con una decisione molto ben argomentata, che si confronta sia con il quadro costituzionale che con la legislazione sociale europea, ribadendo due principi di diritto che a chi scrive paiono pacifici e condivisibili: 1) è precluso al giudice un accertamento di merito sulle scelte imprenditoriali, mentre è consentita la sola verifica sulla reale sussistenza di esse (nelle aule di tribunale si direbbe: un accertamento sulla veritas e non sulla bonitas); 2) un licenziamento che persegua l’obiettivo di «una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero […] un incremento della redditività d’impresa (e quindi eventualmente del profitto)» è del tutto legittimo e non è necessario che sia disposto solo in presenza del presupposto fattuale di situazioni economiche sfavorevoli o di spese per costi straordinari. Peraltro, in tale occasione la Suprema Corte si è premurata di segnalare che in tal modo si limitava a dare continuità a e consolidare un orientamento affermato da tempo. Dunque, verrebbe da dire, scontentando quelli che hanno invocato la dirompente innovatività della pronuncia, nihil novi sub soli.



Nel caso esaminato, senza entrare nel merito della decisione, credo che la sensibilità sulla legittimità del licenziamento sia stata influenzata (come inevitabilmente accade) dalle parti in causa. Non stupisce più di tanto che un dirigente, che ha un costo elevato e che ricopre quel ruolo magari proprio per fare incrementare i profitti, sia stato licenziato proprio perché ci si sia accorti che modificando l’organigramma si ottengono migliori risultati.

Ora, sembra a chi scrive che forse le posizioni critiche possano trovare origine da un retaggio italico, che guarda con sospetto il profitto e per estensione tutta la categoria degli imprenditori, con ciò scordando che le imprese devono ottenere risultati economici!

Quando un’azienda assume un lavoratore (capace) piuttosto che un altro (incapace); quando esternalizza le attività di un dato reparto, magari licenziando gli addetti a tale settore; quando progetta e realizza un nuovo prodotto; quando investe per realizzare un nuovo stabilimento produttivo; ebbene in tutti questi casi ultimamente cerca di massimizzare i risultati economici. Lo scopo dell’impresa non è appena il profitto, ma non si può negare che è anche attraverso di esso che essa persegue i suoi obiettivi, qualunque si ritiene possano essere. “Demonizzare” il profitto non contribuisce a capire i meccanismi di funzionamento dell’impresa e riduce la concezione stessa di uomo.

Altro discorso è come questo profitto venga impiegato, ma su tale aspetto non ci si può esprimere: forse pronunceremmo un giudizio meno caustico sui giudici di legittimità se il datore di lavoro si fosse premurato di far sapere a tutti che con il risparmio di costi conseguenti al licenziamento è riuscito a fare una cospicua donazione ai bambini poveri delle regioni del terzo mondo; o ha finalmente recuperato quelle somme necessarie per fare un intervento costosissimo alla sua povera mamma malata e in fine di vita; o ha (meno ironicamente) finalmente potuto adeguare la sua azienda ai migliori standard di sicurezza!

Il punto da cui muovere per giudicare – non dico tecnicamente, ma sostanzialmente – mi sembra debba essere la libertà della persona e, nel caso di specie, la libertà di intrapresa che la persona ha; e se c’è stima per tale libertà o meno. L’uso di essa è rimesso all’individuo ed è illiberale e ultimamente violento volerne sindacare l’esercizio, sempre che – ovviamente – questo si muova nell’ambito della legittimità.

A me indispettisce un legislatore (o un sociologo, o un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete) che voglia entrare nel letto delle coppie, per dir loro cosa si intenda per voler bene (come è successo con alcune leggi emanate l’anno passato); o nei banchi delle scuole, per spiegare ai bambini quel che i loro genitori non son capaci di fare; o nel portafoglio degli imprenditori, per suggerire loro quali impeti ideali debbano animarli nel loro lavoro. E mi spaventa ancor di più che, avendo paura della libertà delle persone, anziché aver premura di educarla, si invochino interventi esterni che ne limitino l’esercizio in nome di un bene superiore.