Il problema numero uno del Paese resta il lavoro”, con queste parole il presidente Mattarella identifica la priorità principale per il bene comune del nostro Paese. Il lavoro che rappresenta la condizione per “sentirsi pienamente cittadini”. I dati parlano chiaro: siamo di fronte a una ripresa con il livello complessivo dell’occupazione che è cresciuto ancora nel terzo trimestre 2016 su base annua e si è stabilizzato a livello congiunturale.



A un andamento positivo del prodotto interno lordo – il Pil ha segnato un tasso di crescita tendenziale dell’1% nel terzo trimestre del 2016 – corrispondono dinamiche positive dell’occupazione – “il tasso di occupazione destagionalizzato è stato pari al 57,3% negli ultimi due trimestri, in recupero di quasi due punti percentuali rispetto al momento di minimo (terzo trimestre 2013, 55,4%) considerando l’ultimo decennio 2007-2016, ma ancora distante di un punto e mezzo dal momento di massimo (secondo trimestre 2008, 58,8%)”. (Nota congiunta III trim. 2016 – Istat, Ministero del Lavoro, Inps).



Non si tratta di cantare vittoria, ma di riconoscere che un’inversione di tendenza è iniziata e si sta stabilizzando, pur se con valori non entusiasmanti. Infatti, la strada da percorrere è ancora molto lunga e le difficoltà a livello territoriale e generazionale sono evidenti. Il problema maggiore riguarda la disoccupazione. Sono complessivamente ancora circa 3 milioni i disoccupati e in particolare il tasso di disoccupazione dei giovani, tra i 15 e 29 anni, si attesta nel terzo trimestre 2016 al 26,7% con differenze territoriali rilevanti: al nord è pari al 17,1%, al centro al 25,1%, mentre al sud e isole è al 41%. Identicamente le differenze sono significative in tutti i territori per quanto riguarda il genere femminile che supera di almeno 5 punti quello maschile.



Sebbene il Jobs Act e la riduzione degli sgravi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato abbiano certamente provocato uno shock positivo (in particolare nel 2015), aumentando il numero dei contratti indeterminati (in particolare per i giovani) e riducendo le forme flessibili di impiego (in particolare stage e co.co.pro), tra i giovani, viste le grosse difficoltà che continuano da anni, emergono due opposte posizioni: una di sostanziale sfiducia che fa prevalere lamento e rassegnazione con conseguente “abbandono” della speranza in un futuro positivo; l’altra positiva, tesa alla costruzione di un percorso professionale e umano in un contesto lavorativo in forte trasformazione che chiede continuamente di mettersi in gioco per accettare la sfida che ogni giorno è riproposta.

Che cosa fa prevalere l’una posizione sull’altra? Certamente conta l’avere delle opportunità di lavoro, ma per favorire una posizione di positività è rilevante anche il tempo necessario a ottenere una “stabilità” lavorativa. Ma in cosa consiste oggi la stabilità lavorativa? Cosa la rende reale nel tempo? Quali sono le responsabilità a cui i diversi attori del mercato del lavoro sono chiamati?

Il lavoro oggi non è innanzi tutto un “posto” ma un “percorso” tra occasioni, spesso imprevedibili, e sarà sempre più così. La stabilità dell’impresa, sulla quale si fondava un lavoro, non esiste più. L’obsolescenza dei mezzi di produzione avviene in meno di cinque anni, il ciclo di vita dei prodotti e dei servizi si è ridotto in modo impressionante e le aziende si evolvono e cambiano con una rapidità elevata per rimanere competitive nel mercato globale.

Questi e altri fattori stanno radicalmente trasformando l’idea di lavoro che non può più essere basata solo su competenze specifiche, ma su un metodo di affronto dei bisogni e più in generale della realtà, fondato sulla creatività, la flessibilità, l’attitudine all’affronto e soluzione di problemi, la capacità di relazionarsi e lavorare in gruppo, l’autonomia di giudizio. In sintesi, per lavorare oggi – e sarà sempre di più così – le soft skill (o non cognitive skill) sono sempre più rilevanti per la costruzione di un percorso lavorativo e professionale “stabile”, che duri nel tempo.

Questo fatto emerge con forza dagli studi empirici di Heckman (premio Nobel per l’economia), nei quali viene dimostrato che per lavorare ci vuole oggi un uomo dotato di una “personalità” completa, non uno divorato solo dall’ansia di riuscita o distaccato dalla realtà. Heckman mostra inoltre che un uomo siffatto è meno soggetto a depressione, negatività verso la vita, comportamenti malsani, incapacità di reagire di fronte ai cambiamenti continui. Anche gli studi che stiamo compiendo, sull’analisi degli annunci di lavoro che le imprese italiane effettuano attraverso il web (oltre due milioni di annunci osservati negli ultimi tre anni), rivelano come le aziende diano ampia attenzione alle soft skill per tutte le professioni richieste e quanto siano sempre più rilevanti per la scelta dei candidati.

Ma le soft skill non sono un fatto “naturale” che una persona possiede perché ne è dotata dalla nascita. Come dimostrato in diversi studi, sono il frutto crescente di un’educazione, che rappresenta per questo uno dei punti principali su cui investire oggi. È in questo senso che rivestono particolare importanza i percorsi scolastici e di formazione professionale, ma è fondamentale anche la formazione continua nell’arco dell’intera vita professionale e lavorativa. Occorre osservare che a differenza di molti altri problemi che affliggono il nostro Paese, questo non è innanzitutto un problema di spesa. Come molti studi dimostrano l’Italia ha raggiunto per l’istruzione primaria e secondaria valori di spesa simili agli altri paesi Ue e agli Usa (risulta ancora minore l’investimento per l’istruzione universitaria).

Il problema allora è principalmente di qualità dell’istruzione che deve favorire non solo la crescita di competenze specifiche, ma anche e soprattutto quelle caratteristiche, sopra descritte come soft skill, che consentono lo sviluppo di una personalità aperta all’esperienza e più in generale alla realtà. Questa ipotesi non deve essere ridotta alla sola identificazione di “tecnicismi” (più o meno nuovi) con il conseguente rischio di riduzione della persona ad aspetti ancora parziali, bensì fondarsi sui fattori che sono costitutivi della persona che è innanzitutto sete di verità e felicità.

Il lavoro, in questo senso, non può essere visto come qualcosa fine a se stesso, un’azione che impone le sue condizioni e che la persona deve subire o alle quali deve adeguarsi, ma una circostanza attraverso la quale procedere nel cammino verso la riscoperta continua del senso, del significato di ciò che si fa. Questo rende liberi, capaci cioè di affrontare ogni giorno il cammino verso il compimento della propria umanità.

Da qui possiamo tutti ripartire per la costruzione del bene comune del nostro Paese. Favorire lo sviluppo di esperienze educative e lavorative capaci di valorizzare e far crescere “personalità” che sappiano raccogliere le sfide del mondo del lavoro e affrontare quindi il problema principale del Paese oggi: il lavoro.