RIFORMA PENSIONI 2017. Almeno per ora la Linea Maginot delle pensioni sembra reggere all’offensiva dei sindacati che – istigati e ringalluzziti dalla presa di posizione dei “due presidenti” (Cesare Damiano e Maurizio Sacconi) – hanno tentato lo sfondamento della riforma Fornero sul punto delicato e cruciale dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’attesa di vita. Certo, un aggiramento della barriera difensiva è sempre possibile in Parlamento, visto che tutte le forze politiche guardano alle prossime elezioni e ai voti dei pensionati (i quali – sia detto per inciso – non hanno alcun interesse concreto per il limite dell’età pensionabile che sarà in vigore nel 2019, dal momento che loro in quiescenza ci sono già).



Le organizzazioni sindacali – convocate di buon mattino ieri – hanno esposto al ministro Giuliano Poletti le loro rivendicazioni, senza ottenere (come hanno denunciato a gran voce) adeguate risposte, perché il titolare del Lavoro si è limitato a prendere atto impegnandosi a riferire in sede del Consiglio dei ministri. Ma a quanto pare il Governo ha deciso di tirare diritto per la sua strada, non ritenendo una priorità il tema delle pensioni. In realtà, poi, qualche ritocco ci sarà. Il Governo non si rimangerà le promesse fatte per quanto riguarda l’Ape sociale (un istituto che è sempre più destinato a concentrare su di sé le opportunità di anticipo consentite). Dovrebbe essere confermata la riduzione del requisito contributivo fino a un massimo di due anni per le donne che hanno figli; dovrebbe essere consentito di accedere all’Ape anche ai lavoratori disoccupati che svolgono un’attività precaria o a termine; probabilmente si amplieranno anche le tipologie di lavori considerati gravosi.



Non è chiaro che cosa sarà definito a titolo di pensione garanzia per i giovani (un tema che stava al centro della Fase 2 del documento Governo-sindacati del 28 settembre 2016). In un incontro precedente il Governo aveva ipotizzato un ritocco delle attuali regole previste per coloro che sono interamente nel sistema contributivo secondo le quali questi soggetti potranno andare in quiescenza di vecchiaia all’età di volta in volta vigente purché il loro assegno sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (ovvero a circa 750 euro mensili lordi). La proposta avanzata dal Governo, a suo tempo, prevedeva una riduzione del parametro a 1,2 e un miglioramento della possibilità di cumulo tra pensione e assegno sociale (dal 33% al 50%). Questa operazione – si disse – avrebbe consentito ai giovani di ottenere una pensione intorno ai 600-700 euro.



Attenzione, però: questo non sarebbe un importo garantito (come è oggi l’integrazione al minimo), ma il risultato ipotizzabile in conseguenza delle suddette modifiche, per determinare il quale sarebbero necessarie delle condizioni effettive per quanto riguarda i requisiti anagrafici e contributivi richiesti. Si attendono, poi, gli esiti delle domande relative all’Ape sociale e al trattamento riservato ai lavoratori precoci. Corre voce che molte domande non siano state accolte dall’Inps per difetto di documentazione. L’impressione di chi scrive è tuttavia un’altra e cioè che a molti richiedenti manchino i requisiti previsti, in particolare quelli anagrafici.

La questione dell’età pensionabile viene presentata come se fosse il vero problema: in realtà le coorti che si accingono ad andare in pensione in questi anni, soprattutto se maschi, si trovano ad avere un’età inferiore ai 63 anni canonici, mentre non dispongono dell’anzianità di servizio che consentirebbe loro di anticipare la pensione a prescindere dall’età anagrafica. Restano così in mezzo al guado: contemporaneamente distanti sia dai 63 anni di età che dai 42 anni e 10 mesi di versamenti.