“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”. Così recita l’articolo 35 della nostra Carta Costituzionale approvata nell’ormai lontano 1948. I padri costituenti nello scrivere questo piccolo mattoncino della legge che disciplina il nostro essere una comunità nazionale operavano una presa d’atto della realtà. Allora l’Italia era un Paese uscito duramente colpito da una guerra e da una dittatura durata un ventennio e, per molti, l’unica scelta possibile era quella di emigrare all’estero, ma non solo. Si fuggiva, insomma, in America, Brasile, Germania, Belgio ma anche nelle grandi città del triangolo industriale “in fieri” dalle campagne e dal nostro mezzogiorno.
Colpisce, poi, con la prospettiva del presente, che questi temi siano trattati quando si parla di rapporti economici e non di quelli civili, sociali e politici. Dal 1948, tuttavia, molte cose sono decisamente cambiate. C’è stato il miracolo economico, siamo entrati nel G7 e, forse in maniera troppo veloce, siamo diventati, senza essere pronti, un Paese d’immigrazione. Negli ultimi anni sembra, in ogni caso, che, principalmente a causa della grande crisi economica, siamo tornati a prendere la valigia, un po’ meno di cartone, e a emigrare nuovamente nel mondo alla ricerca di un futuro, e presente, migliore. Questo emerge, ad esempio, anche dall’ultimo rapporto “Italiani nel Mondo” della fondazione Migrantes.
Sempre più italiani si trasferiscono, ad esempio, all’estero portandosi dietro l’intera famiglia, bambini compresi. Una famiglia di emigrati su cinque ha bambini e il 12,9% ne ha di età inferiore ai 10 anni. L’estero viene, addirittura, scelto sempre più spesso come luogo in cui far nascere i propri figli. Oltre ai famosi giovani “in fuga” lo studio individua una nuova categoria di emigranti: i disoccupati disperati. Persone, queste, uscite dal ciclo produttivo a causa della crisi economica, ma ancora in età lavorativa, e che non riescono a ricollocarsi in Italia e che, dunque, scelgono di andarsene.
Sui 124.076 italiani expat nel 2016, quasi uno su dieci è, infatti, rappresentato da persone tra i 50 e i 64 anni, un dato in crescita del 4,6% rispetto all’anno precedente in coerenza con un trend che va avanti da anni. L’emigrazione, tuttavia, non può essere la soluzione e non è, certamente, una politica attiva. Sarà bene ricordarselo anche quando verranno scritti i programmi elettorali per le prossime politiche.