I bookmaker inglesi – a quanto si dice – accettano scommesse su ogni evento. Non sappiamo se abbiano quotato anche l’esito dell’esame che la Consulta effettua oggi sul decreto con cui il Governo ha provveduto a ottemperare alla sentenza n. 30/2015 in tema di rivalutazione automatica delle pensioni. Proviamo a ricostruire in sintesi l’intera vicenda.
2012-2013. Il Governo Monti, con la manovra “salva Italia” di fine 2011, bloccò la perequazione per le pensioni d’importo superiore a 3 volte il minimo per gli anni 2012 e 2013. In sostanza era operante l’indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo (fino a 1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013), mentre le pensioni di importo superiore a 3 volte il minimo non ricevevano alcuna rivalutazione.
2012-2016. Il d.l. n. 65/2015 (convertito dalla l. n. 109/2015), emanato in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il “blocco” dell’indicizzazione per il biennio 2012-2013 delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo, ha sostanzialmente riformulato le regole come segue.
Per gli anni 2012 e 2013:
– 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
– 40% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
– 20% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
– 10% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
-nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per gli anni 2014 e 2015:
– 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
– 8% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
– 4% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
– 2% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
– nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per il 2016:
– 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
– 20% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
– 10% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
– 5% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
– nessuna rivalutazione oltre sei volte il minimo.
A partire dal 2017 era previsto il ripristino del normale sistema di indicizzazione, ma la Legge di bilancio 2016 ha prorogato il regime provvisorio in vigore nel 2015 a tutto il 2018. È appunto il decreto n.65/2015 sul quale si pronunceranno in queste prossime ore i giudici delle leggi chiamati a decidere se il provvedimento ha corretto o meno gli aspetti che la sentenza n. 30 dello stesso anno aveva dichiarato incostituzionali. Ad avviso di chi scrive la sentenza non può che essere positiva (anche se c’è da essere prudenti, dal momento che la relatrice, Silvana Sciarra, è la stessa di quella precedente, invero discutibile). A sostegno delle mie convinzioni basta richiamare il dispositivo della sentenza n.30, nel passaggio cruciale: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo Inps, nella misura del 100 per cento».
Ciò significa che il comma 25 non venne cassato nella sua interezza (nell’alinea seguente della sentenza i “giudici delle leggi” dichiararono inammissibile un ricorso in tal senso). A interpretare correttamente le motivazioni della sentenza, la Corte non giudicò illegittimo l’intervento in sé (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto la giurisprudenza in materia), ma i suoi criteri e modalità. È bene ricordare, infatti, che nella Legge Finanziaria per il 2008 il Governo Prodi, nel quadro dell’attuazione del Protocollo sul Welfare del 2007, tagliò per un anno la perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore a otto volte il minimo (allora circa 3,5mila euro mensili lordi), per l’ammontare di 1,4 miliardi, al solo scopo di compensare la correzione dello “scalone” introdotto nella legge Maroni. Vennero sollevati (peraltro dalle stesse associazioni di dirigenti che hanno presentato anche questi ultimi) dei ricorsi che la Consulta bocciò. Nel 2015, ad avviso della Corte, il caso del 2011 presentava profili differenti, perché la misura contenuta nel decreto Salva Italia interveniva – in modo permanente – su trattamenti medio-bassi, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza).
Risibile, poi, la considerazione per cui non sarebbe stato sufficientemente motivato il provvedimento del Governo Monti con riferimento “alla contingente situazione finanziaria” come se nel Palazzo della Consulta non ricordassero più che, nel novembre 2011, l’Italia, sull’orlo della bancarotta, rischiava addirittura di non pagare né le pensioni, né gli stipendi dei dipendenti pubblici. Tutto ciò premesso, il Governo reagì con un provvedimento d’urgenza, rimodulò il taglio della rivalutazione automatica (col decreto n. 65 furono inclusi nell’esonero altri 2 milioni di pensionati, così, in tutto, i “salvati” salirono a 12 milioni su 16 milioni di soggetti interessati) e rateizzò la restituzione in un certo numero di anni.
Credo che la Consulta, dovendo pronunciarsi ex novo, dovrebbe riconoscere più equo, e quindi ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, il nuovo intervento “riparatore”. Se così non fosse – e sarebbe grave – gli effetti finanziari sarebbero sconvolgenti. Inoltre, sul piano giuridico in senso stretto, la Corte Costituzionale andrebbe nuovamente oltre il suo ruolo istituzionale, pronunciandosi su di una questione squisitamente politica come è il criterio dell’adeguatezza delle prestazioni previdenziali indicato dall’art. 38 della Carta. Il contenuto dei diritti sociali riconosciuti ai cittadini non può prescindere dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica.