Il processo di automazione introdotto dalle nuove tecnologie è destinato a ridurre sempre di più l’intervento umano nei processi lavorativi e, in tanti casi, a sostituire l’uomo. Analizzando lo scenario attuale e gli impatti futuri dell’automazione sul mercato italiano del lavoro, un recente studio di Ambrosetti Club (Tecnologia e lavoro: governare il cambiamento) stima che il 14,9% del totale occupati, cioè circa 3,2 milioni di persone, potrebbe perdere il posto di lavoro nei prossimi 15 anni. L’automazione è diventata uno dei principali fattori di competitività tra le imprese e porterà alla crescente domanda di personale specializzato, capace di innovare se stesso con la tecnologia, riducendo la domanda di personale meno qualificato; ciò avrà come conseguenza una maggiore disparità nella distribuzione della ricchezza, probabilmente a vantaggio di fasce sempre più concentrate di popolazione.
I risultati dello studio sono molto interessanti: tra i settori più a rischio si annoverano agricoltura e pesca (possibile riduzione del 25% della forza lavoro, oltre 225 mila lavoratori), commercio (20%, circa 700 mila lavoratori), manifatturiero (19%, 840 mila lavoratori), alberghi e ristoranti (15%, oltre 180 mila lavoratori), attività finanziarie e assicurative (17%, oltre 110 mila lavoratori).
Mentre non sono rilevanti le differenze geografiche, quanto alle fasce di età, il livello di rischio più elevato (20%) si registra tra i giovani tra i 20 e i 25 anni, probabilmente a causa di un più basso livello di istruzione o di impiego in mansioni di routine; diversamente, per la fascia di età over 65 il rischio di perdita di lavoro diminuirebbe, attestandosi intorno all’11%, per la qualità più strategica dell’occupazione, includendo tale categoria posizioni apicali nelle varie imprese, non facilmente sostituibili.
È interessante vedere i fattori che determinano un rischio di sostituzione contenuto, dando perciò un’idea della fisionomia futura del lavoro: non ripetitività del lavoro svolto, possesso di capacità creative e innovative, complessità intellettuale e operativa, doti relazionali e sociali (empatia e abilità commerciali). I professionisti diplomati in belle arti e conservatorio, ad esempio, avranno una minore esposizione al rischio (5%), trattandosi di una categoria dotata di maggiore creatività -almeno si presume – e, quindi, meno replicabile. Ciò potrà portare anche a una rivincita delle facoltà umanistiche? Non saprei, è presto per dirlo.
Naturalmente, la caduta occupazionale si riflette anche sui consumi, per i quali, nell’arco del periodo considerato (15 anni), lo studio stima una perdita di circa 1,7 miliardi di euro nei primi cinque anni, 2,9 miliardi nei secondi cinque anni e 3,8 miliardi negli ultimi cinque, con le conseguenti contrazioni del Pil e del gettito fiscale, che renderanno necessari seri interventi di finanziamento degli ammortizzatori sociali, quindi politiche a sostegno dell’occupazione e della riconversione del personale.
Ogni rivoluzione nel mondo del lavoro porta naturalmente alla creazione di nuovi profili occupazionali: uno sguardo al passato – argomenta lo studio – mostra una certa fluidità nel passaggio da un settore all’altro, che, tra il 2008 e il 2016, ha coinvolto 1,5 milioni di lavoratori, per così dire, in itinere.
Lo studio mostra che per ogni posto di lavoro generato nei settori ad alta tecnologia vengono generati complessivamente 2,1 posti di lavoro ulteriori; l’effetto moltiplicatore delle rivoluzioni industriali non è una novità, tra il 1960 e il 2016 il numero degli occupati in Italia è cresciuto del 18,4% (da 18, 4 a 22,7 milioni).
A mio avviso, rimane però aperta una domanda fondamentale: il passato anche questa volta si ripeterà? Sempre secondo lo studio citato, nei prossimi 15 anni, per bilanciare la perdita occupazionale, occorrerebbe creare oltre 41 mila posti di lavoro all’anno nei settori relativi alla tecnologia, life science e ricerca scientifica. Non si tratta quindi di un mero incremento quantitativo, ma, direi, di un mutamento radicale di mentalità, dove, come del resto è ovvio, il pallino sarà soprattutto in mano ai giovani, cioè a coloro più sensibili e duttili al cambiamento e dove il ruolo chiave sarà giocato dalla formazione.
Probabilmente ci si troverà di fronte a un mondo assai differenziato, in cui figure professionali altamente tecnicizzate (matematici, fisici, ingegneri, ecc.) si integreranno con profili più umanistici (letterati, filosofi, artisti, ecc.), cioè sempre meno solidificati su orizzonti concettuali acquisiti. Enrico Moretti (cfr. La nuova geografia del lavoro), uno dei più acuti osservatori delle dinamiche della Silicon Valley, nota che il settore dell’innovazione segna il valore insuperabile del capitale umano: mentre in una fabbrica la componente principale delle unità produttive sono i macchinari, “in un’azienda di software al centro ci sono le persone e tutto il resto ruota intorno a loro. Curiosamente, i luoghi di lavoro in cui vengono prodotte le tecnologie più innovative dipendono ancora in larga misura dal lavoro umano, mentre quelli in cui vengono fabbricati beni tradizionali sono in gran parte gestiti da robot”.
Da queste premesse lo studioso si attende la creazione di un numero rilevante di posti di lavoro: secondo una ricerca da lui condotta su 11 milioni di lavoratori americani in 320 aree metropolitane, per ogni posto di lavoro high-tech creato in una città vengono a prodursi altri cinque posti di lavoro in ambito non high-tech nel lungo periodo; si tratta sia di attività professionali (medico, avvocato, ecc.), sia di attività non professionali (cameriere, commesso, ecc.): “Nella Silicon Valley i lavoratori dell’high-tech sono la causa della prosperità locale, mentre medici, avvocati, muratori e insegnanti di yoga ne sono l’effetto. È molto semplice: alla fine della giornata qualcuno deve pur pagare quelle lezioni di yoga”. Sarà vero, ma il problema è quel lungo periodo che non si riesce bene a quantificare e che, nel bel mezzo del suo trascorrere, può disseminare cadaveri. Del resto, contro la storia non si può andare.