Mismatch è un sostantivo mutuato dall’inglese (e dalla pallacanestro): in economia viene usato per indicare un disequilibrio tra domanda e offerta specifica nel mercato del lavoro. Se tale disequilibrio è divenuto ormai strutturale si producono contemporaneamente i fenomeni contradditori di imprese che cercano inutilmente il personale che serve alla loro organizzazione del lavoro e di lavoratori che non trovano un’occupazione decente. A determinare questa discrepanza è innanzitutto il sistema formativo, a partire dall’orientamento per finire con il “saper fare” delle persone (che è qualche cosa di più del pur necessario titolo di studio richiesto).



Il Mismatch – in una certa misura – è una situazione inevitabile perché l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non è mai il risultato di un algoritmo in grado di prevedere e di sistemare tutto, neppure in un’economia rigidamente pianificata. In Italia, però, il disequilibrio è troppo marcato, anche se si preferisce ignorarlo perché è più “politicamente corretto” denunciare la disoccupazione giovanile, soprattutto se di natura intellettuale, nonché la cosiddetta fuga dei cervelli verso altri Paesi che offrono maggiori opportunità (anche se minori sono le tutele, affidate prevalentemente alle capacità professionali del soggetto).



Una recente indagine di Unioncamere, inquadrata nel Progetto Excelsior, ha monitorato la domanda di lavoro delle imprese allo scopo di osservare (nel periodo compreso tra settembre e novembre dell’anno in corso) quali sono le professioni ricercate. I lavoratori previsti in entrata per grande gruppo professionale (ovviamente non si tratta solo di nuovi posti) nel periodo considerato sono 995.630 di cui 207.303 dirigenti, impiegati con elevata specializzazione e tecnici (20,8% del totale), 327.050 impiegati, professioni commerciali e nei servizi (32,8%), 285.510 operai specializzati e conduttori di impianti e macchine (29%), 172.730 appartenenti a professioni non qualificate (17,3%). Seguono poi parecchie tabelle che indicano quali sono (e in quale misura) le professioni di difficile reperimento sia per il ridotto numero di candidati, sia per l’esperienza e la qualificazione inadeguate.



Il confronto è particolarmente significativo se è ragguagliato al titolo di studio, perché mette in chiaro quanto incidano le carenze del sistema scolastico rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Delle 995.630 entrate previste in settembre e ottobre 137.480 richiedono un titolo di studio di livello universitario. Ebbene l’indagine sostiene che le difficoltà di reperimento riguardano il 32,1% (di cui il 17,6% per ridotto numero di candidati). Val la pena di notare quali siano gli indirizzi in cui si presentano maggiori difficoltà di reperimento: il 48% in ingegneria elettronica e dell’informazione; il 55,8% in ingegneria industriale e addirittura il 65,4% per l’indirizzo linguistico, interpreti e traduttori. A livello secondario e post-secondario su 330.410 non è facilmente reperibile una quota pari al 26,2%.

Anche in questa area vi sono dei “buchi” clamorosi per quanto riguarda la possibilità di assumere personale con un titolo di studio pertinente: ben il 58,6% nell’indirizzo informatica e telecomunicazioni e il 52,7% nell’indirizzo linguistico; il 50,7% negli indirizzi della chimica, materiali e biotecnologie. È di difficile reperimento il 23,7% dei 300.570 titolari di qualifica o diploma professionale richiesti; sembrerà strano, ma la quota più elevata (57%) riguarda l’indirizzo abbigliamento (miracoli del made in Italy?). Persino laddove non è richiesta alcuna formazione specifica (227.170) è arduo reperire il 17,7% degli operatori.

Per tirare le somme sui 995.630 soggetti, il 24,3% è di difficile reperibilità (l’11,3% per numero ridotto di candidati). Il 16,8% non ha esperienza nella professione e ben il 49% nel settore. Meritano un’inquietante sottolineatura le carenze che permangono per quanto concerne le lingue straniere. Il fatto che non ci siano sufficienti insegnanti in questa materia si sconta anche nel lungo periodo.