Tutto insegna, anche le recenti vicende che hanno portato al blocco del sistema di distribuzione “privato” di pacchi e lettere. Pensiamoci. Una volta c’erano i postini che portavano le lettere. Poi vennero i postini che le lettere le avrebbero pure portate, ma se l’organizzazione del sistema fosse stata adeguata e veloce. Così la posta giaceva: se andava bene nei depositi, se andava male nei fossi. Colpa dei sindacati, si diceva, che proteggono gente che non vuol lavorare. Perciò per smontare un meccanismo che di suo già non era molto stabile e performante si pensò bene di “aprire alla concorrenza”. Ben venga, quindi: chi sarà più veloce tra il postino e il nuovo recapitante vincerà la gara e porterà a casa i soldi.
Così le nostre strade si sono riempite di furgoni e furgoncini, pieni di pacchi, casse, lettere, giornali et similia. Già, perché a quel punto anche Ente Poste ha pensato bene di sostituire i suoi postini con i “nuovi”: pagati meno, licenziabili in fretta e senza i sindacati tra i piedi. Una manna? Beh, una manna per “quasi” tutti, se si considera che, al netto del traffico stradale aumentato e della necessità per questi nuovi “recapitatori” di correre, correre, correre, il problema restano sempre i soldi. Perché a tagliare si fa in fretta, ma si fa ancora più in fretta, e soprattutto si fa meglio, se quello che viene tagliato è il tuo salario. A me basta che la Posta arrivi puntuale.
Visto però dall’osservatorio di chi deve correre, correre, correre, i quattro (di fatto) soldi che ti danno all’inizio possono anche bastare, ma poi quando la fatica si accumula, il salario e i diritti no, allora la misura si colma e scopri che il lavoro pagato poco e male ha anche un altro nome, si chiama sfruttamento. D’altronde il sistema era semplice: si creavano cooperative, composte da stranieri soprattutto, che vincevano gli appalti al ribasso, inquadrando la gente al meglio (cioè al meno) possibile ed ecco creato il libero mercato “de noantri”.
Poi vuoi mettere al piccolo imprenditore (veneto o marchigiano poco importa) cosa gli interessa se colui che gli consegna il pacco dalla Svezia non ha ferie, festività pagate, se quando sta a casa malato gli decurtano lo stipendio? Senza sindacato do it better, avrebbe detto Madonna. Sennonché passano gli anni e qualcuno al sindacato ci va, e i “rompiballe” cominciano a mettere il naso anche in quel settore. Arrivano le prime sigle, soprattutto quelle dei Sindacati trasporti confederali, e iniziano a pretendere, pensa te!, di far rispettare il contratto nazionale di lavoro. Ma come si fa? Il comparto è speciale, la gente è particolare, le condizioni sono quel che sono: ogni scusa per gli imprenditori è buona per dire no, per mettere i bastoni tra le ruote, per creare problemi. Di fatto per spingere i lavoratori sempre più all’esasperazione. E l’esasperazione è una brutta bestia, una bestia che nessuno può domare, che ti porta a volere tutto, anche l’impossibile. Che ti butta tra le braccia di chi ti promette la luna anche se sa che non può dartela: ma intanto tu sogni e ti illudi.
In pieno solleone agostano, qualche settimana fa, scoppia il caso, meglio il caos. Perché al cambio di appalto gli uni perdono, gli altri vincono. Finalmente, pensano i responsabili del gruppo, sono riusciti a buttare fuori i sindacati confederali. Ora sì che si può tornare a lavorare: cioè a far soldi in cambio di minori garanzie, di diritti negati, di piccoli e grandi soprusi.
Senonché quelli che arrivano hanno un’aria strana, già nota: sono i Cobas. Vabbè basterà garantire qualche cosa in più, piccole promesse e piccolissimi diritti, ma intanto i peggiori sono fuori. Ma la tigre, insegnavano tanti anni fa, per quanto la accarezzi dal verso giusto del pelo, resta sempre una tigre. Per cui ai piccoli diritti “elargiti” si sommano richieste di assunzioni, ma fatte attraverso giri di amici, soprattutto provenienti dal medesimo contesto politico. Dieci, venti, quaranta assunzioni, se volete la pace! Ma i soldi non ci sono, non si può: sono calate le commesse.
Così salta tutto. E la tigre si sveglia. Sciopero a oltranza, blocco del sito produttivo, presidio,contro-presidio. Serrata dell’azienda, 70mila pacchi bloccati da distribuire. Azienda contro sindacati dei Cobas. Ma qualcuno in Sda che comincia anche a pensare che forse, se si fosse concesso quel che c’era nei contratti nazionali, se non avessimo speculato su pochi centesimi o qualche euro, ora non avremmo tutto ‘sto baccano, non dovremmo rispondere a chi ci accusa di aver scelto “in questo modo di attaccare un intero movimento sindacale, i Cobas, capace di incidere sugli assetti produttivi aziendali e quindi migliorare le condizioni della classe operaia”.
Parli di “classe operaia” e salta fuori ovviamente anche Sinistra italiana che ne approfitta per dichiarare che “nasce proprio da qui la sacrosanta battaglia contro il Jobs Act, che rappresenta un moderno strumento di sfruttamento”. Ma se le reazioni sono quasi pavloviane, sinistra estrema o Cobas in testa, resta il problema posto dalle Poste (se mi passate il giochino linguistico): perché la ricerca di flessibilità in Italia è divenuta ricerca di anarchia, soprattutto in alcuni settori del mercato del lavoro, in particolare quelli a bassissimo contenuto tecnologico. Le aziende si sono affidate solo alla continua limatura del costo dei dipendenti per vivere e prosperare. Zero (o pochissima) ricerca di nuovi mercati, zero innovazione, zero formazione (costa). Meglio non pagare malattia, festività, ferie non godute. Ma così le aziende stesse si sono condannate a morire di inedia. Tranne poi per sopravvivere pretendere che siano i lavoratori a sostenere il peso dei sacrifici.
Forse, dico forse, quando a trattare c’erano i sindacati confederali era meglio: perché è gente che, tra mille contraddizioni e problemi, conosce la differenza tra un’azienda viva e una morta. Che chiede il rispetto dei diritti contrattuali, ma difficilmente si lascia andare a vertenze che portano alla chiusura delle imprese. Che firma contratti ragionevoli perché sa che questa è la base per poter tornare a chiedere qualcosa in più, un passo alla volta, in favore dei dipendenti. Che difficilmente fa battaglie ideologiche sulla pelle di imprese e lavoratori.
Già, forse si stava meglio ma non lo si sapeva. E ora, ora che si fa? L’azienda ha semplicemente avuto un colpo di genio: dichiarare che ci sono pacchi in deterioramento perché contengono materiale deperibile e che attira ratti in libera uscita e suggerire quindi lo sgombero del sito per ragioni sanitarie. I sindacati Cobas hanno bloccato tutto e non fanno marcia indietro, pronti alle barricate. La cooperativa non lavora, la merce non arriva. I topi ballano. Occorrerebbe parlarsi, ma per parlarsi occorrerebbe che al tavolo si confrontassero posizioni ragionevoli o conciliabili. Occorrerebbero imprenditori più lungimiranti e che tornassero quei sindacati che magari rompono, ma che conoscono la sottile differenza che passa tra possibile e impossibile, tra contratto e chiusura.
Cosa abbiamo imparato oggi: che quella descritta è una situazione emblematica di quanto succede allorché non si vuol riconoscere che un certo sindacato, confederale, non solo è utile, ma indispensabile per la vita delle imprese, e che a volte, come dicevano le nostre mamme, a pagar di più (cioè a rispettare i contratti nazionali) non solo si è nel giusto, ma si fa bene e si risparmia.