È iniziata con il voto del Senato l’iter parlamentare della nota di aggiornamento del Def, il Documento economico e finanziario che deve fissare le previsioni economiche per il prossimo anno. Documento importante e che, qualora non dovesse rispettare quanto previsto negli accordi europei fissati precedentemente, porterebbe in automatico a un incremento dell’Iva. Tale accordo in automatico era previsto nei documenti di programmazione precedentemente assunti. Il documento indica anche i programmi di spesa. Su tali temi il Governo aveva riassunto in tre priorità gli interventi nuovi su cui incrementare le risorse: giovani, lavoro, famiglie.
Su questa base la relazione di accompagnamento indica alcune misure che saranno finanziate per rispondere a problematiche ritenute centrali per proseguire sulla via della crescita dell’occupazione e il sostegno al reddito delle fasce più svantaggiate, oltre che delle famiglie e della natalità. Nella relazione si citano per l’occupazione il sostegno agli investimenti e la promozione dell’occupazione giovanile a tempo indeterminato mediante nuovi interventi di decontribuzione del lavoro. Si prevede inoltre il potenziamento degli strumenti di lotta alla povertà attraverso un aumento di risorse per il reddito di inclusione e per il rinnovo del contratto del pubblico impiego. Per quanto riguarda il sostegno alle famiglie e il contrasto alla prolungata tendenza al calo demografico si vuole potenziare il sistema degli assegni per i figli a carico anche razionalizzando gli istituti attuali.
Queste proposte hanno visto dividersi la maggioranza che sostiene il governo. In particolare, la parte scissionista del Pd, i parlamentari che fanno riferimento a Bersani e D’Alema, hanno votato contro e un viceministro si è dimesso per rispettare la volontà di gruppo. Tralasciamo pure la polemica che si è innescata, nel gruppuscolo che si candida a rifondare per l’ennesima volta la sinistra, tra Pisapia e D’Alema. Qui il problema è di chi comanderà in futuro e il giudizio sul Pd (possibile alleato o controparte sempre e comunque). Il voto parlamentare indica però che vi sono pochi margini per arrivare a una composizione. Concessioni verbali possono sistemare le mozioni, ma il merito del confronto rinvia a concezioni opposte su temi di fondo.
In particolare, torna a essere centrale la concezione del lavoro che divide la sinistra di governo dalla sinistra di testimonianza. Il metodo seguito dalla maggioranza è quella che sta alla base del Jobs Act: il lavoro è quello che viene creato dallo sviluppo economico e la legislazione deve facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Per questo si sta realizzando una rete nazionale di servizi al lavoro che prendono in carico chi è alla ricerca di ricollocazione e si sono sviluppate politiche per il sistema duale a sostegno dell’occupazione giovanile.
All’interno dei rapporti di lavoro si è intervenuti, come noto, con il superamento dell’articolo 18 e l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. A ulteriore sostegno dei nuovi contratti si è introdotta, per un periodo limitato, una decontribuzione delle nuove assunzioni. Oggi si riprende questo tema, ma si vuole sostenere in particolare l’assunzione di giovani sotto i 29 anni per poi, nel triennio, estendere a tutti un taglio del cuneo fiscale.
La sinistra che dice no ha invece una visione del lavoro statica. Insiste perché i contratti siano solo a tempo indeterminato e chiede quindi che le imprese che hanno usufruito della decontribuzione confermino i lavoratori assunti e non possano ricorrere a nuovi sgravi. Tutto ciò è poi inserito in una descrizione dei nuovi lavori come solo a tempo determinato, stages e tirocini che determinano una nuova precarizzazione.
Le due concezioni radicalmente diverse emergono chiaramente. Da un lato si prende atto che le trasformazioni economiche hanno mutato i rapporti di lavoro. Sinteticamente si può dire che si è passati da un lavoro a vita a una vita di lavori. Per chi vuole stare dalla parte dei lavoratori si pone quindi la necessità di rivedere i diritti e le tutele conquistate per riaffermare in forme nuove il diritto costituzionale al lavoro e al sistema di welfare connesso con l’essere lavoratore.
Dall’altra parte si tiene lo sguardo rivolto al passato. Lo scontro lavoro-capitale è sempre quello e quindi diritti e tutele sono quelle ereditate dal sistema fordista di produzione e non vanno toccate. Non importa se poi nella realtà il precariato dilaga nella Pa anche per l’eccesso di tutele di chi è già inserito o se nelle Regioni governate da esponenti di Articolo 1 (vedi la Toscana) stages e tirocini dilagano senza nessun controllo sulla finalità occupazionale per cui erano nati questi strumenti di avvicinamento fra formazione e lavoro.
Sono alla fine due concezioni opposte, una la sinistra che vuole essere di governo in una società aperta, l’altra la sinistra della società immobile. In cambio dell’immobilismo basta allora la testimonianza e non occorre porsi il problema di avanzare proposte credibili. A conferma di ciò brilla il disinteresse sulle altre parti sociali contenute nel documento. Silenzio sulle misure per combattere le nuove povertà, così come per il sostegno al reddito delle famiglie con figli.
Certo conta molto la formazione piciista di D’Alema. Se ciò che conta è produrre una rottura, ciò va fatto su un tema che possa essere propagandisticamente usato anche nei dibattiti da bar. In questo senso fare leva sul lavoro, che è ancora oggi tema che sta alla base della grande insicurezza e paura popolare, è scelta utile. Ma non conta più il merito. La scelta è strumentale e funzionale solo per una rottura politica.
Ciò produrrà danni ideali e pratici a sinistra e soprattutto per quel ridicolo tentativo di aggregare contro il Pd. Sul piano parlamentare Camera e Senato hanno detto sì alla proposta del Governo. Per rompere la maggioranza dovranno inventare qualche cosa di diverso, per ora appaiono ininfluenti e lontani dalle domande che la realtà pone a tutti.