Il 28 settembre è stata pubblicata la (quarta) nota trimestrale redatta congiuntamente da Istat, ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Inps e Inail e Anpal sulle tendenze dell’occupazione relativa al secondo trimestre 2017. I dati sono già stati sapientemente analizzati nelle loro linee generali da Giuliano Cazzola su queste pagine, e dunque non è necessario dilungarsi su di essi. Ciò che personalmente mi ha colpito della lettura dei dati è la composizione degli occupati in termini di forme contrattuali adottate, e di seguito cerco di dare conto.



Il lavoro subordinato continua a essere la parte preponderante degli occupati, e anzi continua a crescere (+2,1%), a scapito del lavoro autonomo (-3,6%). Quest’ultimo dato dipende soprattutto dalle leggi di riforma del 2015, che – come noto – hanno contributo a una forte marginalizzazione (e non alla scomparsa dall’ordinamento, come talvolta erroneamente si dice) delle collaborazioni coordinate e continuative. È fortemente in crescita il lavoro a chiamata, a compensare il mancato ricorso ai voucher, vista la complessa e complicata revisione del lavoro occasionale accessorio.



Quanto al resto, due dati suscitano interrogativi: circa la metà delle nuove posizioni di lavoro subordinato è costituita da lavoratori a tempo determinato, il cui utilizzo è in forte espansione negli ultimi anni; il lavoro in somministrazione (che con una brutale semplificazione concettuale può essere assimilato al determinato) è cresciuto, nel periodo di osservazione dell’indagine, del 24,4%.

In effetti, quando nel 2015 è stato introdotto il contratto a tutela crescenti (ora sub iudicio della Corte costituzionale), mi ero persuaso che alcune forme lavorative, come per l’appunto il lavoro a termine, sarebbero state fortemente ridimensionate. Evidentemente mi sbagliavo. Ricordo che da alcuni anni il sistema delle causali, molto rigido in passato, si è via via sfilacciato in favore della attuale libertà di apposizione di un termine al contratto; pertanto il rischio di contenzioso per l’illegittima stipula di un contratto di lavoro a termine si è ridotto notevolmente e forse è quasi del tutto azzerata.



È rimasta invece (relativamente) alta la sanzione che l’ordinamento appronta in caso di contratto illegittimo (fino a dodici mensilità). Paradossalmente, in caso di soccombenza giudiziale, è economicamente meno rischioso il recesso illegittimo da un contratto a tutele crescenti rispetto alla cessazione di un contratto a termine illegittimo. I lavoratori a termine, infine, hanno un diritto di precedenza nelle assunzioni effettuate dal datore presso il quale siano stati impiegati.

Per il contratto di somministrazione, poi, oltre al dato meramente economico dei costi aziendali nettamente superiori rispetto a quelli di un lavoratore assunto direttamente, che già potrebbero disincentivare il ricorso a tale forma, si aggiunge il rischio che il lavoratore possa agire direttamente contro l’utilizzatore per vedere costituito un rapporto alle dipendenze di questi.

Diversi contratti collettivi prevedono infine norme che restringono il ricorso sia al lavoro a termine che a quello somministrato. La ratio ispiratrice della disciplina del contratto a termine e del contratto di somministrazione è ben diversa da quella del lavoro a tutele crescenti e mira a rendere forma normale dei rapporti di lavoro il contratto a tempo indeterminato.

Per gli assunti dopo il marzo del 2015, il recesso illegittimo è sanzionato in maniera proporzionale agli anni di servizio; pertanto – e per fare un esempio che dia conto degli ordini di grandezza – un eventuale recesso (illegittimo) intervenuto nei primi anni del rapporto, per le imprese con numero di dipendenti superiori a quindici comporterebbe obblighi risarcitori pari a quattro mensilità. Allora, perché le imprese continuano a impiegare il contratto a termine o quello di somministrazione?

In parte ciò dipende dalla cessazione degli sgravi contributivi previsti dal 2014 per le assunzioni a tempo indeterminato; in parte da legittime ragioni di carattere strategico e organizzativo. Ma a me pare che la risposta possa essere nella proposta, di certo provocatoria ma non priva di sagacia, che in un convegno di diversi anni fa uno dei relatori avanzò: innalzare a tre anni il termine del periodo di prova – periodo durante il quale il recesso per ambo le parti è libero e che al momento è fissato nel tempo massimo di sei mesi.

Nello spiegare questa mia ipotesi, cerco di tradurre alcune immagini che sono talvolta fornite agli avvocati dalle loro imprese clienti, e dunque mi si perdonerà se ricorro a suggestioni di psicologia spiccia piuttosto che a scientifici criteri economici e giuridici. Da una parte, l’imprenditore usa di queste forme per condurre una valutazione su un ampio margine temporale sul lavoratore, all’esito della quale c’è il “premio” del posto fisso. Egli poi, da un punto di vista più strettamente gestionale, rimanda il “costo” della indeterminatezza dell’impiego a un momento del tempo nel quale abbia acquisito una ragionevole certezza della validità del lavoratore. Il che, si badi bene, non è (o potrebbe non essere) scevro da un certo cinismo da parte degli imprenditori.

D’altra parte, il sistema del mercato del lavoro è tuttora percepito ancora in termini di outsider e insider, e il confine tra le due aree non sta appena nella possibilità di lavorare, ma nella sottile linea psicologica del lavoro condotto in “certe” forme, con “determinate” tipologie, quelle che una volta una sociologa del lavoro con ironia definì “quelle che ti consentono di farti avere un mutuo dalla banca”. Raggiunta tale soglia, la produttività del lavoro talvolta ha una flessione in maniera inversamente proporzionale alla conoscenza di tutti i diritti e le facoltà concesse al lavoratore dalla legge, dai contratti collettivi e dai regolamenti aziendali e alla propensione a usarne. O, come mi ha detto una volta ironicamente un imprenditore, il contratto a tempo indeterminato “fa ammalare i lavoratori”, nel senso che – di fatto – aumenta esponenzialmente il rischio che i lavoratori si assentino per malattia…

Il tema che dunque l’incremento percentuale del lavoro somministrato e a termine pongono è forse quello della produttività del lavoro e della sua tenuta nel tempo.