È stato divulgato nei giorni scorsi il Rapporto Svimez per il 2017. L’associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno traccia il quadro, a dati 2016, della situazione economico-sociale dopo un periodo di crisi significativa. Come noto, la crisi ha contratto tutti i dati economici: meno sviluppo, meno occupazione e conseguentemente fenomeni di nuove povertà economiche e sociali. Con i dati del 2016 anche nel mezzogiorno si conferma che vi sono segnali positivi continui da almeno 12 mesi. È segno che i tassi di ripresa rilevati a livello nazionale trovano conferma anche nelle regioni più arretrate del Paese.



Per quanto riguarda l’occupazione si registrano oltre 100.000 nuovi assunti nell’ultimo anno, ma si è ancora lontani dai livelli pre crisi. Mentre dal 2016 nelle regioni settentrionali si registra un saldo di occupati positivo rispetto al dato del 2008 (+48.000 lavoratori), in quelle del mezzogiorno il saldo è tuttora negativo per circa 380.000 unità. La ripresa occupazionale è soprattutto femminile (+2,1% contro un +1,5% maschile) e riguarda soprattutto il lavoro dipendente. I rapporti di lavoro sono stati sostenuti dai provvedimenti di decontribuzione e la quasi totalità (oltre il 90%) dei nuovi assunti lo è a tempo indeterminato.



Il mercato del lavoro ha però privilegiato lavoratori in età avanzata e penalizzato ulteriormente i più giovani. I nuovi posti di lavoro per i più giovani sono stati solo 40.000 in un biennio. Il risultato finale lascia il mezzogiorno ancora molto lontano dai tassi di occupazione posti come obiettivo dall’Europa (70%). Nelle regioni meridionali il tasso di occupazione risulta del 47% contro il 69% registrato nelle regioni del centro-nord. Per quanto riguarda la fascia giovanile il dato è ancora più negativo. Il tasso di occupazione è del 28,1% nel mezzogiorno contro un 47,3% delle regioni del centro-nord. 



Il contributo principale alla crescita occupazionale viene dal settore agricolo (+5,5%) seguito dall’industria (+2,8%) e dai servizi (+1,8%). Continua invece la crisi del settore delle costruzioni (- 3,9%). Che la crescita registrata non sia ancora una nuova marcata linea di sviluppo emerge da alcuni dati frutto delle analisi settoriali. La crescita di occupati del settore agricolo deve molto alla crescita di lavoratori autonomi che hanno aperto piccole imprese nel settore. Che nel complesso è ancora molto lontano dai livelli produttivi del 2018. Al contrario il settore delle costruzioni vede segnali di ripresa produttiva ma registra una riorganizzazione da cui deriva il dato occupazionale ancora negativo. Un altro brutto segnale che indica una crescita occupazionale ancora povera di contenuti viene dalla crescita del part-time involontario. Cresce nel sud quasi del 2% contro la flessione (-0,1%) registrata al centro-nord. Il part-time involontario fa sì che il reddito da lavoro sia limitato ed è ulteriormente anomalo che rappresenti quasi l’80% del totale del part-time nel mezzogiorno.

L’insieme dei movimenti registrati sul mercato del lavoro porta a valutare il rischio, per ora in corso, di una ripresa occupazionale con lavori a basso reddito che può solo alimentare un accentuarsi del dualismo nord-sud. Il rapporto Svimez, a questo riguardo, segnala alcuni fenomeni che testimoniano come la tendenza generale delle aree meridionali indichi segnali nuovi delle caratteristiche che hanno contraddistinto la questione del sud.

Significativo è il calo demografico complessivo. È diminuita nel corso degli ultimi anni la popolazione complessiva sia nella sua componente autoctona che in quella migratoria. Negli ultimi 15 anni la popolazione autoctona è cresciuta nel centro-nord di 274.000 unita, mentre è diminuita di 393.000 unità nel sud. Anche i flussi di immigrazione seguono lo stesso dualismo. Mentre oggi rappresentano poco più del 10% nella popolazione residente al nord, sono solo il 4% della popolazione del mezzogiorno. 

Il dato demografico risulta anche con riferimento ai processi di inurbamento. Contro tutte le tendenze registrate a livello internazionale, le aree metropolitane del sud perdono popolazione e peso economico. La popolazione metropolitana cala nell’arco dell’ultimo quindicennio dal 40,2% al 38,5%. Il valore aggiunto delle aree metropolitane meridionali ha un calo di 10,5 punti contro un meno 3% circa nel centro-nord (che ha peraltro recuperato con l’ultimo anno).

Ultimo dato a conferma di una ripresa che pone molti quesiti è che circa un quarto dei nuovi occupati meridionali è in realtà solo residente nel sud, ma occupato nel centro-nord. La ripresa produttiva del sistema economico del nord ha stimolato un nuovo pendolarismo proveniente dal sud. Significativi sono i nuovi flussi migratori verso nord e verso l’estero (154.000 unità), ma pesano anche circa 100.000 pendolari con occupazione fuori area geografica.

In sintesi il rapporto segnala come, rispetto alle descrizioni storiche della questione meridionale, oggi il sud non è più un’area giovane, né tantomeno il serbatoio demografico del Paese. Si presenta quindi un quadro nuovo dallo storico dualismo nord-sud. Le nuove caratteristiche demografiche presentano una situazione con una popolazione a crescente prevalenza anziana che assorbe buona parte delle risorse pubbliche sulla sicurezza sociale, sottraendo capitale umano e fisico alla necessità di investimenti produttivi, capaci di rilanciare produttività e competitività del sistema economico complessivo.

È un quadro che pone nuove domande alle politiche per il mezzogiorno seguite finora. Puntare solo su grandi interventi pubblici non è più la risposta capace di innescare una ripresa duratura. A fronte di un impegno per la modernizzazione delle reti infrastrutturali servono interventi capaci di creare le condizioni sociali favorevoli per rimettere in moto le risorse sociali capaci di creare un nuovo tessuto produttivo. La spinta della ripresa, che trova conferma nei dati del primo quadrimestre del 2017 anche nel sud, va utilizzata per dimostrare che la questione meridionale è ancora priorità nell’agenda della politica economica nazionale.