RIFORMA PENSIONI. Si usava dire “di pensioni si muore” quando nel 1958 debuttava il primo lavoro teatrale di Giuseppe Patroni Griffi, per l’appunto intitolata “D’amore si muore”. Allora solo una metà degli italiani aveva titolo a fruire di previdenza, secondo un sistema categoriale che aveva dato vita a una cinquantina di “regimi” differenti. Tutto cambiò con la “grande riforma” del 1967-68, che – disse la Cgil – dava “agli italiani il sistema previdenziale più avanzato al mondo”, tale da assicurare all’età legale della pensione un trattamento (al netto di contributi e imposte) quasi analogo all’ultimo stipendio. Il sistema era così “avanzato”; dopo circa due anni venne insediata una Commissione (la Commissione Castellino) per rivederlo a fondo. Da allora si succedettero proposte che portarono nel 1989 alla separazione tra “assistenza” e “previdenza” nel bilancio Inps. Solo dopo la crisi finanziaria del 1992 e la caduta del primo Governo di quella che veniva chiamata la “Seconda Repubblica” si arrivò a trasformare radicalmente il sistema.



In parallelo, Svezia e Italia, pur conservando un “sistema a ripartizione” (in base al quale i lavoratori attivi mantenevano e mantengono, tramite gli assegni previdenziali, i pensionati), sono passate da un meccanismo tramite il quale le pensioni erano calcolate sulle retribuzioni (sistema retributivo) a uno tramite il quale sono computate tramite i contributi versati, debitamente aggiornati (sistema contributivo). Il sistema, chiamato Notional Defined Contribution (Ndc), è ora adottato da una trentina di Paesi. Sarebbe dovuto essere “definitivo”.



Invece da allora a oggi è stato “riformato” circa una quindicina di volte, spesso provocando crisi di governo. Ora “di pensioni si muore” si applica a governi e forze politiche. Ho tenuto a sintetizzare come si è giunti a questa situazione perché altrimenti è difficile comprendere il dibattito sulle pensioni nelle attuali discussioni parlamentari sulla Legge di bilancio e le possibili soluzioni “definitive”.

Le ragioni principali sono due:

1) La separazione tra previdenza e assistenza, pur se risulta chiaramente dallo studio dei bilanci Inps, è raramente trattata nel dibattito giornalistico e politico. Senza la spesa per l’assistenza (politiche sociali degnissime), ma che sono a carico delle fiscalità generale e in cui l’Inps è solo un comodo “ufficiale di pagamento” per conto dello Stato, la spesa previdenziale sarebbe sul 14% del Pil e non oltre il 18%. Questi dati confermano quanto ripetutamente affermato da vari esperti (a partire da Alberto Brambilla), e cioè che mentre le spese previdenziali “vere” sono totalmente coperte da contributi, invece, le spese assistenziali sono largamente “in rosso” perché lo Stato non le finanzia correttamente e tempestivamente. Si tratta di spese che – talora – figurano come prestiti all’Inps e non come doverosi contributi assistenziali. Cazzola ha ricordato che, nel 1998, Ciampi ha azzerato il debito che lo Stato aveva verso l’Inps, pari a circa 80 miliardi di euro attuali: il patrimonio tornò allora in attivo. Lo stesso Presidente dell’Inps Boeri ha ripetutamente sottolineato: “Si tratta di una questione contabile, le prestazioni sono garantite dallo Stato e ciò che conta non è il bilancio Inps, ma quello statale!”.



2) La “riforma definitiva” contemplava un periodo di transizione di ben 18 anni , e non di tre come in Svezia (oppure di da zero a cinque come in altri Paesi). Il periodo così lungo, richiesto dalla dirigenza sindacale, ha creato distorsioni a più non posso (“pensioni d’oro”) che si è cercato di parare con successivi aggiustamenti che hanno reso il sistema previdenziale una veste di Arlecchino, piena di toppe. Se ne chiude una e se ne apre un’altra.

A questo punto cosa fare? In breve tornare ai principi di base Ndc quali applicati in numerosi Paesi:

a) separazione netta tra assistenza e previdenza, trovando se possibile un differente canale contabile ed erogatorio per l’assistenza (tra cui primeggiano assegni sociali, assegni di invalidità, integrazioni al minino) al fine di non ingenerare confusione.

b) portare a cinque-dieci anni (come altrove) il requisito per poter fruire di una pensione statale “contributiva”, anche al fine di ridurre il fenomeno tutto italiano dei “silenti” (coloro che hanno versato contributi sino a 19 anni e 11 mesi e mezzo e non hanno titolo a previdenza)

c) eliminare il concetto stesso di “pensioni di vecchiaia” (come dopo decenni è stato eliminato quello di pensioni di anzianità): si resta al lavoro tanto quanto si può e si vuole. E chi lavora più anni avrà un trattamento previdenziale statale più pingue, mentre chi ne lavora meno ne avrà uno più modesto.

Se non si torna a questi principi sarà difficile avere un sistema previdenziale moderno ed efficiente.