RIFORMA PENSIONI 2017. “Tanto tuonò che piovve” commentò Socrate quando la moglie Santippe – adirata per il suo perder tempo a filosofeggiare mentre i suoi figli pativano la fame – lo prese di mira, dalla finestra, con tutto il vasellame che le capitò tra le mani. Ai sindacati è andata decisamente meglio, anche se i loro dirigenti sono usciti dall’incontro di ieri con il Governo dichiarandosi non ancora soddisfatti. I ministri presenti, invece, di oggetti contundenti hanno gettato sul popolo dei pensionandi altri 300 milioni di euro, allo scopo di garantire l’andata in pensione, prima del previsto, di qualche decina di migliaia di lavoratori in più. L’operazione, nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe consentire di predisporre alle scadenze previste (entro fine anno) il decreto ministeriale che recepisce il responso dell’Istat sui nuovi scenari dell’attesa di vita e che eleverà a 67 anni l’età del trattamento di vecchiaia già a partire dal 2019.



Che cosa ha gettato il Governo sull’altro piatto della bilancia? Non certo la spada di Brenno, ma nemmeno una manciata di bruscolini. Ai soggetti appartenenti a 15 categorie di lavori gravosi (4 in più di quelle a cui si applica attualmente l’Ape social) non sarà applicato l’incremento (di 5 mesi) dei requisiti anagrafico e contributivo. Le categorie che hanno il diritto di accedere all’Ape sociale (e quindi ad avvalersi dei requisiti previdenti per la pensione) sono nel complesso indicate nel seguente elenco:



– operai dell’industria estrattiva 

– dell’edilizia e della manutenzione degli edifici

– conduttori di gru o di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni 

– conciatori di pelli e pellicce

– conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante

– conduttori di mezzi pesanti e camion

– personale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato in turni

– addetti all’assistenza personale di persone in condizioni di non autosufficienza

– insegnanti della scuola dell’infanzia ed educatori degli asili nido



– facchini e addetti allo spostamento merci

– personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia, operatori ecologici e altri raccoglitori e separatori di rifiuti

– operai agricoli

– marittimi 

– pescatori

– operai siderurgici di seconda fusione. 

Ovviamente la nuova disciplina non potrà limitarsi a queste declaratorie – peraltro molto vaghe e perciò estendibili -, ma dovranno essere individuati precisi limiti riguardanti il tempo di esposizione a tali attività gravose. Il criterio dei sei anni negli ultimi sette, se può essere giustificato per l’accesso all’Ape (in concorrenza con i 36 anni di anzianità contributiva), non lo è per quanto riguarda la possibilità di andare prima in pensione. Se così fosse si verificherebbe una situazione al limite del paradosso, in quanto il lavoro gravoso risulterebbe più tutelato – a regime – di quello usurante.

Il Governo, nell’incontro di ieri, si è giocato un’altra carta: la disponibilità a rimodulare dal 2021 il periodo a cui fare riferimento per calcolare l’incremento dell’attesa di vita. Verrebbe considerata la media biennale (anziché triennale) da confrontare con quella del biennio precedente in modo di tener conto anche delle eventuali diminuzioni dell’attesa di vita. I sindacati, infatti, confidano che si ripeti quanto è avvenuto nel 2016 quando sono stati registrati oltre 615 mila decessi tra i cittadini residenti, 32 mila in meno del 2015 (-5%). Nessuno si meravigli: pur di evitare l’incremento dell’età pensionabile le organizzazioni sindacali fanno scongiuri affinché l’aspettativa di vita si riduca. Purtroppo per loro – ha certificato l’Istat – rispetto a 40 anni fa la probabilità di morire nel primo anno di vita si è abbattuta di oltre sette volte, mentre quella di morire a 65 anni di età si è più che dimezzata. Un neonato del 1976 (quando entrò andò a regime la riforma del 1969) aveva una probabilità del 90% di essere ancora in vita all’età di 50 anni, se maschio, e a quella di 59 anni, se femmina. Quaranta anni più tardi, un neonato del 2016 può confidare di sopravvivere con un 90% di possibilità fino all’età di 64 anni, se maschio, e fino a quella di 70, se femmina. Ma gli scenari futuri non sono da meno.

Come ha fatto notare un bravo giornalista de Il Sole 24 Ore, Davide Colombo, occorre “considerare il fatto che se oggi ogni 35 pensionati corrispondono 100 concittadini in età da lavoro (non tutti però occupati) tra vent’anni il rapporto salirà a 54. Vent’anni ancora più in là, siamo nel 2057, si arriva a 62 pensionati ogni 100 cittadini in età da lavoro (ripetiamolo, non tutti però con un’occupazione stabile). Non considerare l’orizzonte lungo, quando si fanno scelte in materia previdenziale, è un po’ come prendere sotto gamba i mutamenti climatici, perché tanto i loro effetti sono lontani”. Purtroppo non tutti hanno l’onestà intellettuale di Colombo. L’informazione sta quasi tutta dalla parte… del re di Prussia. Lunedì prossimo si svolgerà l’ultimo round alla presenza del conte Gentiloni. Ma i sindacati sanno benissimo di poter contare su di una prova d’appello. Le Camere hanno già le brache calate. E aspettano…