Tra le varie figure che popolano l’ampia platea del lavoro subordinato è recentemente salita alla ribalta quella del “lavoratore agile” o smart worker, il quale, secondo la nozione fornita dalla legge n. 81/2008, che ha dettato la relativa disciplina, esegue la prestazione «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa». Il dipendente “agile”, quindi, gode di ampi margini di discrezionalità, giacché, quando opera fuori dall’azienda, sceglie dove e, entro certi limiti, anche quando lavorare, salvo rimanere normalmente “connesso” con il datore di lavoro, mediante i dispositivi tecnologici fornitigli.
Simili spazi di autonomia, tuttavia, comportano anche problemi di adattamento di alcune delle discipline applicabili al rapporto. È il caso dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, dalla quale certamente, in applicazione dei criteri previsti dal testo unico (d.p.r. n. 1124/1965), il lavoratore smart viene tutelato, come espressamente ribadito dall’art. 23 della suddetta legge n. 81. Ad alcuni degli interrogativi posti all’indomani dell’entrata in vigore della disciplina tenta di rispondere la circolare n. 48, emanata dall’Inail il 2 novembre scorso.
L’Istituto ha in effetti risolto il problema dei costi dell’assicurazione, affermando che il tasso di premio rimane quello applicabile al lavoro svolto in azienda. Ben lontane dalla soluzione, invece, sono le questioni che attengono alla esatta definizione dell’ambito di operatività della tutela, in particolare per ciò che attiene all’individuazione degli infortuni indennizzabili.
Come noto, il criterio fondamentale che determina l’indennizzabilità dell’infortunio nel regime Inail è quello della “occasione di lavoro”: l’assicurazione, cioè, interviene per indennizzare non solo gli eventi determinati dai rischi tipici delle mansioni svolte (si pensi all’infortunio occorso al falegname che usa la sega elettrica), ma anche a tutti quelli che, come ripetutamente statuito dalla Corte di Cassazione, comunque sono da ricollegare all’ambiente di lavoro e alle condizioni socio-ambientali nelle quali la prestazione lavorativa viene espletata, anche se tali condizioni derivano da fattori esterni ed estranei al ciclo produttivo (si pensi all’infortunio occorso durante una rapina nel luogo di lavoro; ma gli esempi ricavabili dalla giurisprudenza sono moltissimi). C’è, comunque, sempre bisogno di individuare un concreto collegamento con il lavoro e con l’ambiente nel quale questo viene svolto.
Tale criterio – che già si è rivelato, in molti casi, di non semplice applicazione per il lavoro svolto all’interno dei locali aziendali – finisce per diventare addirittura sfuggente, nelle ipotesi in cui l’ambiente di lavoro non è predeterminato, ma viene individuato, di volta in volta, in base a scelte del tutto autonome del dipendente, il quale, tanto per fare un esempio banale, potrebbe decidere di lavorare trattenendosi presso la casa della fidanzata che era andato a trovare nel weekend. In un caso del genere come si fa a stabilire se, nel momento in cui è avvenuto l’infortunio, il soggetto stava compiendo un’attività attinente al lavoro – e dunque se, per dirla con le parole della circolare Inail, l’infortunio era causato «da un rischio connesso con la prestazione lavorativa» – o il suo agire era in quel momento finalizzato allo svago o alla cura della relazione sentimentale?
La questione si presenta ancor più problematica per la tutela dell’infortunio cosiddetto in itinere, e cioè quello che, in via generale, viene indennizzato, qualora avvenuto «… durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro …» (art. 2, d.p.r. n. 1124/1965). L’art. 23 della legge n. 81 cerca di adattare quel criterio al lavoratore smart, disponendo che gli «infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto [dal dipendente] per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali» vengano indennizzati «… quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza».
È arduo dare concretezza al criterio indicato dal legislatore. Sembrerebbe addirittura che, in questo caso, non si tratti soltanto di accertare che il dipendente “agile” si stava effettivamente recando al (o stava tornando dal) lavoro, ma si introduca, con il riferimento alla “ragionevolezza”, anche un criterio volto a sindacare la scelta che l’interessato fa del luogo nel quale svolgere la prestazione. Rimane comunque, anche in questo caso, il problema fondamentale di riuscire a comprendere se, in concreto, il viaggio nel corso del quale il dipendente abbia subito l’infortunio, fosse davvero configurabile come il «normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali».
La circolare Inail non riesce a dare, su tali questioni, indicazioni sufficientemente concrete rinviando a un’analisi da compiere caso per caso, e indicando, come utile elemento di indagine, l’accordo scritto che, ai sensi dell’art. 19 della stessa legge n. 81, deve essere stipulato per regolare le modalità del lavoro agile. Ai sensi di detta norma, tale accordo «disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore», nonché «i tempi di riposo» e «le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro».
In realtà, è ben possibile che quel testo non offra indicazioni sufficienti. Di ciò è perfettamente cosciente l’Istituto, il quale avverte che, in questi casi, «saranno necessari specifici accertamenti finalizzati a verificare la sussistenza dei presupposti sostanziali della tutela e, in particolare, a verificare se l’attività svolta dal lavoratore al momento dell’evento infortunistico sia comunque in stretto collegamento con quella lavorativa, in quanto necessitata e funzionale alla stessa, sebbene svolta all’esterno dei locali aziendali».
La percezione dell’indennizzo sarà dunque, in ultima istanza, subordinata a una ricostruzione delle modalità di lavoro e delle circostanze nelle quali si è realizzato l’infortunio, dalla quale possa ricavarsi la prova concreta della sussistenza del suddetto collegamento. E l’onere di fornire detta prova – è opportuno ricordarlo – sarà a carico del lavoratore che detto indennizzo reclama.