Si avvicina per il pubblico impiego la stagione dei rinnovi contrattuali, dopo il congelamento disposto nel 2010 a causa della grave crisi economica che ha coinvolto l’Italia. Il disegno di legge di bilancio per il 2018 contiene, infatti, gli stanziamenti necessari per riaccendere i motori della contrattazione collettiva. Quando saranno firmati i contratti, saranno passati esattamente 9 anni dagli ultimi stipulati, fermi al 2009.
Il Governo, nei giorni scorsi, ha sottolineato che le previsioni della Legge di bilancio sono il rispetto dell’impegno preso lo scorso anno, l’accordo del 30 novembre 2016 con i sindacati, nel quale nero su bianco è stato previsto l’obiettivo dell’incremento medio lordo di 85 euro. Si era trattato di un vero e proprio “assegno in bianco” sottoscritto dall’esecutivo, visto che all’epoca le risorse per assicurare l’incremento contrattuale chiesto dalle parti sindacali non esistevano: prova ne sia che solo con la manovra 2018 sono state reperite.
Si tratta di una somma molto rilevante: 1,650 miliardi, che si aggiungono alle risorse precedentemente stanziate negli anni 2016 e 2017 per una spesa complessiva di 2,85 miliardi a regime. Ma, i giochi non sono ancora fatti. Lo stanziamento nella Legge di bilancio riguarda solo i contratti collettivi per il comparto dei dipendenti “statali” veri e propri: ministeri e agenzie, che, soprattutto per la presenza della scuola (con circa 1 milione di dipendenti), rappresenta circa la metà del totale dei lavoratori pubblici. All’appello mancano regioni, enti locali ed enti del servizio sanitario nazionale, chiamati a reperire dai loro bilanci altri 2,5 miliardi circa.
Non sarà facile: come è noto, in particolare comuni e soprattutto province non versano affatto in condizioni finanziarie ottimali, a causa dei tagli e della ripetizione del blocco delle aliquote delle tasse locali. La manovra 2018 cerca di rimediare all’insostenibile prelievo forzoso da tre miliardi imposto con troppa leggerezza nel 2014, con un’erogazione di circa mezzo miliardo, comunque insufficiente per consentire loro di erogare i servizi essenziali: difficile che i disastrati bilanci provinciali possano sostenere senza fatica gli incrementi contrattuali. Ma, anche le regioni avranno i loro grattacapi. Dunque, la strada per i rinnovi contrattuali dell’intero settore pubblico è ancora tutt’altro che in discesa, anche se tracciata.
V’è, peraltro, ancora da sciogliere il nodo della distribuzione degli aumenti, considerato che la cifra lorda mensile di 85 euro è solo una “media”. Il Governo ha più volte ribadito che non intende assegnare gli incrementi in proporzione alla retribuzione percepita dai dipendenti, per ottenere il risultato, quindi, di riconoscere cifre superiori agli stipendi più bassi. Non sono ancora stati fissati i criteri necessari per giungere a questo risultato.
Se si considera che la contrattazione collettiva è chiamata anche a rivedere a fondo parti essenziali dei sistemi di valutazione, poiché la riforma Madia ha abolito (condivisibilmente) le tre fasce obbligatorie di premio, lasciando all’autonomia delle parti la fissazione dei criteri per diversificare i premi da attribuire ai dipendenti, si comprende come lo sforzo per giungere alla sottoscrizione dei contratti collettivi prima delle elezioni (è ovvio l’intento del Governo di provare a riguadagnare il consenso perduto dei dipendenti pubblici) è piuttosto rilevante e non è per nulla escluso che la contrattazione si concluda con “urgenza” per la parte economica, lasciando a “code” post-elettorali la regolazione di parti significative della disciplina giuridica del rapporto di lavoro.
Sempre nel comprensibile intento di ottenere consensi dalle parti sindacali e dal vasto mondo dei circa 3 milioni di dipendenti pubblici, il Governo vanta gli stanziamenti della Legge di bilancio 2018 come il rispetto dell’impegno assunto, come già ricordato, lo scorso 30 novembre con i sindacati. È certamente vero che la Legge di bilancio va nella direzione tracciata un anno fa. Ma, ci sarebbe da ricordare che il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro pubblici non è certamente il frutto di accordi tra esecutivo e sindacati. Si tratta, semmai, di un atto dovuto, imposto dalla sentenza della Corte costituzionale 23 luglio 2015 n. 178, che considerò illegittimo (sia pure senza effetti retroattivi) il congelamento dei contratti pubblici a partire dal 2010, imponendo, quindi, al Governo di porre rimedio.
Come si nota, dunque, non è in ballo il rispetto di accordi sindacali peraltro piuttosto inconsueti, come quello del 30 novembre 2016, da molti considerato una delle ultime frecce all’arco della propaganda per il sì al referendum del 4 dicembre 2016; i nuovi contratti collettivi stanno intervenendo a circa 3 anni di distanza dall’accertamento dell’illegittimità costituzionale del blocco della contrattazione disposto dalla Consulta.