È apparsa il 20 novembre scorso sulla stampa nazionale la notizia di una dipendente del Comune di Roma, addetta all’Ufficio anticorruzione, che era solita assentarsi dal lavoro dopo aver timbrato il cartellino e che è stata licenziata a seguito della segnalazione anonima di un collega. La notizia ha seguito soltanto di pochi giorni l’approvazione in via definitiva da parte della Camera, nella seduta del 15 novembre u.s., della proposta di legge sul cosiddetto “whistleblowing”, termine anglosassone utilizzato per descrivere il fenomeno della segnalazione da parte dei dipendenti, pubblici e privati, di reati o di irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro. 



Lo scopo della nuova normativa è chiaramente quello di favorire l’emersione di fatti illeciti posti in essere dalla Pubblica amministrazione o dal datore di lavoro privato e di proteggere nel contempo gli autori delle segnalazioni contro il rischio di comportamenti ritorsivi da parte del datore di lavoro. Non è raro infatti il caso di dipendenti pubblici e privati discriminati e spesso addirittura licenziati a seguito di denunce rivolte nei confronti di colleghi e/o superiori. L’orientamento espresso dalla Cassazione fino a oggi è che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda non può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti. 



In applicazione di questi principi, una recente sentenza della Cassazione del 26 settembre 2017 n. 22375 ha accolto il ricorso di un lavoratore licenziato per aver accusato il legale rappresentante della società datrice di lavoro di aver commesso nei suoi confronti i reati di maltrattamento, percosse, violenza privata e minacce, benché le accuse si fossero rivelate infondate. Secondo la Cassazione, l’esenzione da responsabilità in capo al denunciante deve operare anche nei casi di colpa grave, in quanto la collaborazione del cittadino, che risponde a un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest’ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso. 



Proprio la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori porta a escludere che nell’ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza dell’insussistenza del fatto o dell’assenza di responsabilità del datore. Dunque: perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con l’archiviazione della “notitia criminis” o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia. 

A protezione del whistleblower interviene ora la nuova normativa, che integra ed estende anche al settore privato la disciplina che la legge c.d. Severino (l. 190/2012) già prevedeva per i soli dipendenti pubblici. La legge si compone di tre articoli. Il primo riguarda la Pubblica amministrazione e modifica l’art. 54 bis del Testo unico del pubblico impiego (Dlgs n. 165 del 2001), prevedendo che il dipendente pubblico che segnala ai responsabili anticorruzione, all’Anac o ai magistrati ordinari contabili condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro “non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione“. In caso di licenziamento, il denunciante ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno in misura pari all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei relativi contributi previdenziali, ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23. Le tutele previste dalla nuova normativa non sono garantite invece “nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia ovvero la responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave“.

L’art. 2 della nuova legge estende anche al settore privato la tutela del whistleblower, stabilendo  che, nei modelli di organizzazione e di gestione, predisposti dalle società ai sensi del decreto 231/2001 per la prevenzione dei reati, siano previsti specifici canali di segnalazione (di cui almeno uno con modalità informatiche) che garantiscano la riservatezza dell’identità del segnalante e sia previsto altresì il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione. I modelli dovranno anche adottare sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate. Anche per il  settore privato si prevede la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio e di ogni altra misura ritorsiva e discriminatoria adottata nei confronti del segnalante, compreso il mutamento di mansioni.

La nuova legge prevede anche una significativa inversione dell’onere della prova in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi sulle condizioni di lavoro successivi alla segnalazione, addossando sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa.

Da ultimo, l’articolo 3 introduce come giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio (art. 326 c.p.), del segreto professionale (art. 622 c.p.), del segreto scientifico ed industriale (art. 623 c.p.) nonché di violazione dell’obbligo di fedeltà da parte del prestatore di lavoro (art. 2105 c.c.) il perseguimento, da parte del dipendente pubblico e privato che segnali illeciti, dell’interesse all’integrità delle amministrazioni (sia pubbliche che private), nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni. La giusta causa non opera ove l’obbligo del segreto professionale gravi su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata.  

Si prevede poi che quando notizie e documenti che sono comunicati all’organo deputato a riceverli siano oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio, costituisce violazione del relativo obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito e, in particolare, la rivelazione al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine.

La materia è delicata, perché il lavoratore denunciante deve essere sicuramente tutelato contro possibili comportamenti ritorsivi da parte del datore di lavoro, ma deve esserlo anche il lavoratore denunciato contro il rischio di denunce false e calunniose. Il datore di lavoro ha addirittura l’obbligo, ai sensi dell’art. 2087 c.c., di tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro ingiustamente accusati dai colleghi. Quello delineato dalla nuova normativa appare un bilanciamento equilibrato degli interessi in gioco, che tende a recepire l’orientamento assunto in materia dalla Cassazione. Vedremo se si rivelerà tale anche alla prova dei fatti.