L’era globale è certamente un’epoca segnata da una complessità notevole. Non è solo “nuova era”, come tutte, segnata da nuove incognite; il cambiamento è di tale portata e gli sconvolgimenti che si registrano sono così tanti che risulta difficile anche ai più preparati scienziati sociali stilare bilanci oggettivi e previsioni realistiche. Certo è che la retorica è molta, anche perché si continua a parlare prevalentemente delle disuguaglianze quando l’economia globale – che Friedrich Nietzsche avrebbe forse chiamato “l’ultima follia dell’umano” – non solo ha raddoppiato il Pil mondiale, ma ha portato ricchezza, anche, in paesi dove prima non c’era.



Varrebbe quindi la pena – una volta dentro la follia – di essere proprio un po’ più folli. E invece ancora nel nostro Paese aspettiamo quel salto culturale che ci porti ad affrontare la situazione – che è irreversibile – come questa va affrontata. Solo per fare un esempio, è di ieri il dibattito sulla tassazione dei robot perché l’automazione cancellerebbe il lavoro. Si guardi ai paesi che più hanno investito nella robotica (Usa, Gb e Germania) e si capirà che questo timore è pura ideologia: sono proprio i paesi dove è cresciuto il lavoro.



In Italia certamente il ceto medio ha perso posizioni, ma quando si agitano dati sul non lavoro e sulla povertà bisognerebbe almeno chiedersi – come abbiamo scritto su queste pagine – quanto pesano quelli dell’economia sommersa. Aggiungiamo anche che per cinquant’anni quasi tutto è filato liscio e si sono registrate condizioni di crescita e di progresso sociale difficilmente ripetibili: Eric Hobsbawm ne Il secolo breve definisce “età dell’oro” l’arco di tempo compreso tra il 1947 e il 1973; l’Italia, in scia alle economie avanzate, ha vissuto quello che è passato alla storia come il “miracolo economico” (1950-1970) e all’inizio degli anni 2000 era la quinta potenza economica mondiale.



In verità, il nostro è il Paese che per il momento ha meno risposto alla trasformazione, subendola. Gli interventi più interessanti che il decisore politico ha attuato in questo ventennio sono recenti e consistono nelle diverse forme di incentivazione a disposizione per quelle imprese che scelgono la strada dell’innovazione. Perché è chiaro che il lavoro ha un futuro laddove le imprese si innovano, nella loro organizzazione e nelle loro conoscenze e competenze.

Il sostegno più importante all’economia è venuto in questi anni proprio dai suoi attori, da imprese e lavoratori e dalle loro rappresentanze. La contrattazione si è rivelata per molte aziende la strada per ripartire e ristrutturarsi. In qualche caso, si legga Fiat, gli accordi – e le loro novità – sono stati decisivi. Oggi, con un po’ di enfasi, si ritiene la contrattazione di secondo livello fondamentale per attraversare il guado di Industry 4.0, a tal punto che qualche politico dichiara che i contratti nazionali non servono più.

Al di là del fatto che la contrattazione aziendale non è un’invenzione di Marchionne – sono circa 50 anni che esistono i contratti aziendali – negli ultimi 10 anni, alcuni fatti eclatanti hanno assegnato un ruolo forte al contratto di secondo livello: dall’accordo interconfederale del 2009 (il primo non unitario, la Cgil non lo firmò), al caso Fiat appunto, alle successive intese 2011 e 2013, alla legge sulla detassazione strutturale sul salario di produttività, fino ad arrivare al recente rinnovo del contratto nazionale metalmeccanico. Quest’ultimo fatto, lo abbiamo più volte scritto, è significativo perché non solo il conservatorismo sindacale sposa istanze e principi avversati per anni – contrattazione di secondo livello appunto e welfare intergrativo -, ma anche perché è questo il contratto dell’industria più esposto agli investitori internazionali.

Ora, la chiarezza che qui viene apportata al rapporto tra i due livelli contrattuali è importante: il contratto nazionale serve a tenere legato il salario alla dinamica inflattiva, per tutto il resto si rinvia alla contrattazione di secondo livello; questa risulterà decisiva, anche, per definire l’organizzazione del lavoro sulla base di smart working, formazione e welfare aziendale, i veri cardini di Industry 4.0.

Hanno ragione quindi coloro che sostengono che non serve più il contratto nazionale? Intanto, in Italia non abbiamo una legge sul salario minimo; quindi, le retribuzioni dovranno pur stare agganciate, se non a una legge sul salario minimo ai contratti collettivi nazionali. In secondo luogo, a chi indica sempre la Germania come esempio da seguire – dove la contrattazione di secondo livello cresce in modo importante – bisognerebbe ricordare la fondamentale differenza che c’è tra noi e i cugini tedeschi: il loro sistema produttivo è prevalentemente basato sulla grande impresa, noi abbiamo la Pmi. Questo per dire, anche, che alle piccole imprese in particolare – che sono tante – il contratto nazionale risolve molti problemi, perché i benefici dell’applicazione del Ccnl (per poche persone) sono superiori ai costi di gestione di un contratto aziendale.

Non va tuttavia mai dimenticato che oggi la trasformazione e la contrattazione aziendale chiedono un protagonismo crescente degli attori, ma anche più competenza e conoscenza sia dell’organizzazione del lavoro, sia della materia contrattuale, cosa su cui le organizzazioni sindacali sono chiamate a investire. Le regole del gioco vanno riscritte e, per rifarci all’età dell’oro e concludere con una battuta, “la regola d’oro è che non ci sono regole d’oro”.

Twitter: @sabella_thinkin