Ieri si sono “festeggiati” i primi cento anni della rivoluzione d’ottobre, la fase finale e decisiva della rivoluzione russa, che segnò dapprima il crollo dell’Impero russo e poi l’instaurazione della Repubblica sovietica. Infatti, solo dopo l’insurrezione avvenuta tra il 6 e il 7 novembre (24 e 25 ottobre del calendario giuliano) del 1917 a Pietrogrado con la presa del Palazzo d’inverno, i bolscevichi formarono “finalmente” il governo rivoluzionario presieduto da Lenin e furono in grado di estendere progressivamente il loro potere su gran parte dei territori del vecchio, e sconfitto, Impero zarista.
Nel nuovo ordine il potere supremo era assegnato al Congresso dei Soviet di tutte le Russie, composto da deputati provenienti dai soviet locali della Russia. In particolare, il comitato guida del Congresso dei Soviet agiva come “organo supremo di potere” e come presidenza collettiva dello Stato. La nuova costituzione leninista riconosceva informalmente la classe operaia come sovrano della Russia, secondo i noti principi marxisti della dittatura del proletariato. Si stabiliva, quindi, che i lavoratori dovessero essere in alleanza politica con i contadini e si davano forti garanzie di eguali diritti tra lavoratori e contadini. Si negava poi, in questa prospettiva, il diritto della borghesia, e di tutti quelli che avevano sostenuto l’Armata Bianca nella guerra civile russa, di partecipare alle elezioni dei soviet o di detenere il potere politico.
Si riprendeva e “valorizzava” quindi lo slogan politico “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!” proveniente dal Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels di cui costituisce la celebre frase conclusiva. L’espressione fu, infatti, adottata come motto dell’Unione Sovietica con il fine di rappresentare l’internazionalismo proletario verso il quale era orientata l’Unione Sovietica ed addirittura, riportata sull’emblema di Stato trascritta in tutte le lingue delle repubbliche aderenti all’Urss.
Molti anni dopo, curiosamente proprio negli stessi giorni, il 9 novembre 1989, durante una conferenza stampa fu comunicato che il Politburo della Ddr (la Germania comunista dell’Est) aveva deciso che tutti i berlinesi dell’Est avrebbero potuto, seppur con un con un appropriato permesso, attraversare il confine. In poche ore decine di migliaia di berlinesi dell’Est si precipitarono per le strade chiedendo di entrare in Berlino Ovest. Le guardie di confine, sorprese, iniziarono a tempestare di telefonate i loro superiori, ma era ormai chiaro che non era più possibile rimandare indietro tale enorme folla.
Oggi a cento anni da quella storica notte di Pietroburgo viene da chiedersi, nel tempo delle post-ideologie, se di quella speranza che aveva mosso milioni di uomini e donne, lavoratrici e lavoratori, di tutto il mondo si possa ancora, nonostante tutto, salvare qualcosa e se le vicende di un secolo di “comunismo reale” possano essere, in qualche modo, di monito per i nuovi “proletariati”, assolutamente disuniti, del terzo millennio.