È stato, finalmente, presentato pochi giorni fa a Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Rapporto “Il mercato del lavoro: verso una lettura integrata”, realizzato grazie a un accordo (da più parti, e da tempo, auspicato) tra ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal. Lo studio parte, infatti, dal presupposto che una lettura integrata del mercato del lavoro, utilizzando fonti statistiche e amministrative, migliora in misura significativa l’analisi di aspetti strutturali e dinamici di grande rilevanza per la vita sociale ed economica del Paese ed evita quella, un po’ stucchevole, battaglia dei numeri tra enti diversi.
A prescindere dalle valutazioni, certamente importanti, di natura metodologica, è indubbio che questo rapporto rappresenta anche una sorta di pagella per i vari esecutivi che si sono succeduti negli ultimi anni in vista del, sempre più probabile, esame elettorale di marzo. Rispetto all’analisi del nostro mercato del lavoro, i primi dati che emergono con chiarezza sono di natura macroeconomica. Negli ultimi due anni, infatti, anche in Italia la ripresa accelera e il mercato del lavoro recupera, in buona parte, i livelli occupazionali precedenti la crisi: nel primo semestre del 2017 il numero di occupati si avvicina ai livelli del 2008, tuttavia in termini di ore lavorate il divario è ancora rilevante.
La ripresa dell’occupazione è poi particolarmente significativa per il lavoro dipendente e nel settore privato dell’economia, mentre continua il declino del lavoro autonomo e nella Pubblica amministrazione, che fra il 2008 e 2016 ha perso ben 220 mila unità di lavoro a causa del lungo (e intelligente?) blocco del turnover, che ha rappresentato certamente un freno al recupero dell’occupazione nel Paese. Dal 2014 cresce, inoltre, in particolare l’occupazione a termine, con un rallentamento nei due anni successivi, mentre dal 2015, grazie anche alla “decontribuzione Renzi” è cresciuto anche il lavoro “stabile”. Dal primo trimestre 2017 è ripresa, tuttavia, la forte crescita dell’occupazione dipendente a termine, che nel secondo trimestre 2017 ha mostrato un ulteriore sostenuto incremento (+4,8%) toccando, addirittura, il massimo storico (2,7 milioni di unità).
Uno dei tratti caratteristici della lunga crisi, solo parzialmente modificato dalla recente fase di ripresa, che emerge dal rapporto è poi la nota divergenza “generazionale” nell’andamento dei tassi di occupazione, con una forte penalizzazione dei giovani: nel periodo, infatti, 2008-2016, il tasso dei 15-34enni ha perso 10,4 punti percentuali, mentre quello delle persone di 55-64 anni è cresciuto di 16 punti.
Per i giovani si evidenzia come le perdite siano state maggiori nel Centro-nord e per la componente maschile, mentre come per i 55-64enni all’aumento abbiano contribuito sia uomini e donne, soprattutto del nord. Il giudizio complessivo, è, quindi, interlocutorio e a luci e ombre. Riprendendo la metafora scolastica l’Italia sembra, ancora una volta, lo studente, forse di talento, che si impegna (?), ma che potrebbe fare certamente di più.