L’adeguamento dei requisiti anagrafici e contributivi alla speranza di vita suscita sempre perplessità, molto spesso sfruttata a fini politici. La norma è stata introdotta nel 2010 con decorrenza 1/01/2013, disponendo che i requisiti anagrafici di 65 e 60 anni per il conseguimento della pensione di vecchiaia e il requisito contributivo per accedere al pensionamento indipendentemente dall’età debbano essere adeguati con cadenza triennale. Nel 2011, il cosidetto “Decreto salva Italia” ridusse a biennale la frequenza dell’adeguamento, per gli incrementi successivi a quello effettuato con decorrenza 1/01/2019. Le modalità dell’adeguamento prevedono che, con decreti a regolare cadenza, età e anzianità contributiva siano aggiornati aumentando i requisiti in vigore in misura pari all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istat in relazione al triennio (ora biennio) di riferimento.



In sintesi, i diversi decreti ministeriali intervenuti in attuazione della legge del 2010 hanno disposto l’incremento di 3 mesi dall’1/01/2013 e di 4 mesi dall’1/01/2016, giungendo così alla situazione attuale: 66 anni dall’1/01/2012 al 31/12/2012; 66 anni e 3 mesi dall’1/01/2013 al 31/12/2015; 66 anni e 7 mesi dall’1/01/2016 al 31/12/2018. A partire dall’1/01/2019 e fino al 31/12/2021 l’incremento dovrebbe essere pari a 5 mesi, quindi 67 anni. Da tale adeguamento, il disegno legge di bilancio prevede l’esclusione a beneficio di alcune categorie di lavoratori impegnati in attività usuranti (ad esempio, operai dell’industria estrattiva e dell’edilizia, conduttori di gru, mezzi pesanti e convogli ferroviari, maestre della scuola di infanzia ed educatori di asili nido, ecc.).



Per la pensione anticipata, legata ai requisiti contributivi, si passa da 42 anni e 1 mese del 2012 a 42 anni e 10 mesi per il triennio 2016-2018 (41 anni e 10 mesi per le donne). Per chi ha iniziato a lavorare dal 1996, è possibile richiedere la pensione anticipata con 20 anni di contribuzione e 63 anni di età, anch’essa da adeguare alla speranza di vita e, quindi, fino al 31/12/2018, 63 anni e 7 mesi (64 anni dal 2019).

Trattandosi di adeguamento biennale, i prossimi appuntamenti saranno 2021, 2023, 2025, …. L’impressione è che il trend non si arresti mai: secondo stime Ocse, ad esempio, per gli italiani nati nel 1996 l’età normale per il pensionamento dovrebbe essere di 71,2 anni. Tale meccanismo rischia di essere iniquo, rivelando l’intento del legislatore di procrastinare sempre di più il pagamento del vitalizio. Non a caso, il disegno legge di bilancio 2018, attualmente in discussione in Parlamento, prevede che si faccia riferimento alla media dei valori della speranza di vita registrati nel biennio di riferimento, con un tetto massimo agli aumenti di tre mesi e la possibilità di recupero di eventuali variazioni negative (come accaduto nel 2015) in occasione degli adeguamenti successivi, al momento non previsto.



La tematica è tutt’altro che pacifica: alcuni economisti – fra cui anche il Presidente dell’Inps – insistono sulla necessità di rapportare l’età pensionabile all’aspettativa di vita; diversamente, infatti, lo Stato dovrebbe corrispondere sempre più pensioni, da finanziare con maggiori contributi che si tradurrebbero in maggiori oneri sulle generazioni più giovani: si tratta quindi soprattutto di una questione di equità intergenerazionale, oltre, naturalmente, agli impatti sulla finanza pubblica, incidendo la spesa pensionistica per circa il 16% del Pil. Altri, prevalentemente appartenenti ad aree sindacali, segnalano, sin d’ora, la gravità della situazione sociale, visto che l’Italia è ormai ai vertici della classifica dell’età pensionabile (in Germania si arriverà a 67 anni nel 2030, in Francia si va in pensione a 63 anni); né vale granché – a mio parere – l’osservazione che da noi si è andati per parecchio tempo in pensione in età assai giovane, non essendo certamente giusto recuperare gli sperperi del passato a scapito delle generazioni di mezzo e di quelle più giovani (più o meno lo stesso discorso della tesi precedente). Peraltro, si fa correttamente notare che l’analisi della speranza di vita molto dipende dal tipo di lavoro svolto: in altri termini, non è soltanto questione di far quadrare i conti, pur nella sana preoccupazione di tenere in equilibrio il sistema.

Entrambe le posizioni hanno una loro ragionevolezza, ma dubito che se ne uscirà senza affrontare alla radice il problema che, come in più occasioni ci si è sforzati di mostrare, ha anche riflessi antropologici, oggi trascurati, dovuti soprattutto alla rapidità di cambiamento introdotta dalle nuove tecnologie. Per ora si è trovata una sintesi politica nell’esonerare dagli incrementi i lavoratori impegnati in mansioni usuranti e nella proroga dell’anticipo pensionistico (Ape) volontario, che, di fatto, trasferisce l’onere del “prepensionamento” sui diretti interessati. Tutti argomenti che, si spera, saranno affrontati con serenità non ideologica (indispensabile) dopo le elezioni.