C’è un aforisma, una frase nonsense, che da sempre circola da ogni parte: “Si stava meglio quando si stava peggio…”. È sicuramente un’assurdità, ma contiene un malessere generale: è proprio la radice di questa parola “malessere” a essere presente nella realtà quotidiana della nostra democrazia; ormai siamo costretti, visto l’andazzo, a parlare quasi esclusivamente, consentitemi i termini, di “mala-politica”, “mala-finanza”, “mala-sanità”, “mala-vita”, “mala-gestione dei flussi migratori” e chi ne più ha più ne metta…
A questo proposito, da tempo, l’argomento del giorno è la “mala-previdenza” e sui media e social non si parla d’altro: è un susseguirsi di notizie, dibattiti, interventi di sociologi, politici ed esperti vari su questo dilemma e a tema c’è l’allungamento dell’età pensionistica. Il problema non è da poco e riguarda un po’ tutti, lavoratori ultrasessantenni, quelli che hanno una carriera lavorativa incentrata su occupazioni logoranti, coloro che hanno perso ultimamente il lavoro a pochi anni d’aver diritto alla pensione e persino i nostri giovani che vivono nell’eterna speranza di lavorare e che sono sempre più convinti che loro in pensione non ci andranno mai.
È sempre più palese che viviamo in Italia un’epoca dove il più delle volte la dignità del cittadino e i suoi diritti naturali e acquisiti sono calpestati in nome dell’equità sociale e della giustizia di “Stato”. La verità però è che se ci troviamo in questa situazione perlopiù è per la devastante crisi economica e finanziaria che si è riversata, Paese più, Paese meno, nel mondo occidentale. In tutto questo poi, la mancanza di un’azione seria di welfare sociale che tenga conto principalmente della persona, del cittadino, la fa da padrone. Soprattutto i ceti più deboli sono coinvolti in questa realtà fatta di soprusi da parte di chi ci governa e di conseguenza da parte della Pubblica amministrazione.
Queste, per certi punti di vista, tragiche problematiche, hanno stravolto la vita di tutti noi. In modo parallelo, i nostri governi non sono stati in grado o non hanno voluto affrontate con delle soluzioni adeguate la realtà creatasi, intervenendo quasi esclusivamente per salvare banche e imperi finanziari a scapito dei cittadini; la situazione rimane molto complessa e non si vede all’orizzonte una seppur minima via d’uscita. Esempio eclatante è il sistema previdenziale nazionale: ciò che non va non riguarda soltanto il diritto acquisito, cioè quando – anticipo e posticipo -, in che modo e con che entrata mensile, il lavoratore potrà andare in pensione, ma anche il “dopo”; sin dai primi iter burocratici, Inpdap, Enpals, Enasarco, ecc., non appaiano fino in fondo all’altezza di offrire dei normali e adeguati servizi ai propri utenti. Malgrado ciò, è d’apprezzare quanto pensato e operato negli ultimi 15 anni nell’intento di svecchiare e migliorare il sistema e i collaboratori e dirigenti di questo settore hanno dimostrato buone e proficue capacità professionali, soprattutto nelle sedi più grandi: tuttavia persiste l’impressione, che molti hanno, che si operi ad hoc, per mettere i bastoni tra le ruote, in modo da celare delle gravi magagne esistenti.
Affermiamo che sono abbastanza troppe, le disfunzioni e a volte esse contano di più delle cose funzionanti. Quanti lavorano nel settore, in particolare Patronati e Caf, sono loro malgrado testimoni, anche a volte a loro discapito, di queste situazioni quasi sempre a dir poco “kafkiane”. Per quanto detto, le cause delle svasature dei servizi assistenziali sia nel campo delle pensioni d’invalidità, sia di quelle sociali e sia lavorative si possono riassumere in tre sommi capi: accorpamento, informatizzazione e patrimonio immobiliare.
Accorpamento. Quando nel 2012, si è deciso di far confluire l’Inpdap e l’Enpals nell’Inps, creando così il “super-Inps”, già si sapeva che il disavanzo economico del nuovo Ente sarebbe ammontato a circa 13 miliardi di euro; si è da subito temuto per la sostenibilità del sistema pensionistico pubblico. Infatti, la gestione del Super-ente, in questi ultimi anni, non è riuscita a coprire i buchi degli Istituti incorporati, provocando effetti disastrosi: questo riguarda soprattutto la gestione del ex Inpdap, sia per quanto riguarda il patrimonio immobiliare, sia per contributi versati dai lavoratori del pubblico impiego. Nel tempo si è rilevato che senza questo deficit apportato da tale organo pensionistico dei dipendenti del pubblico impiego, il bilancio economico sarebbe stato positivo. L’Inpdap, in fase d’accordo per l’avvenuta confluenza, non essendo d’accordo con l’inusitato connubio, aveva ottenuto come consolazione la separazione della gestione contributiva dei suoi lavoratori assistiti, fino alla liquidazione definitiva delle pensioni da parte del Super-Inps, soprattutto per quanto concerne i conteggi e la congruità dei contributi versati. A partire da questo quasi per una forma di “protesta” da parte dei funzionari Inpdap sono nate e nascono una serie di ripicche e sciocchi dispetti fra gli organi coinvolti: e chi ha pagato e tutt’ora paga siamo noi dipendenti in procinto di andare in pensione e ugualmente chi c’è già.
I più tartassati sono coloro che fanno domanda di pensionamento e la loro carriera contributiva comprende sia versamenti nel settore pubblico che in quello privato. È successo che aspiranti al congedo abbiano atteso mesi solo per aver risposta positiva o per il rigetto, scoprendo poi nel tempo, soltanto, e meno male, mediante i Patronati e i Caf, che la loro pratica era finita nel dimenticatoio di qualche cassetto o che a “Roma”, da dove tutto viene vagliato, se l’erano scordata.
Informatizzazione. Da diversi anni ormai l’Istituto nazionale della previdenza sociale ha inteso rendere sempre più efficiente la sua struttura con un massiccio ricorso alla telematizzazione dei servizi, per arrivare il prima possibile, a un rapporto più diretto fra cittadini e Istituto, in modo da rendere più veloci le pratiche e saltare il passaggio dell’intermediazione dei Patronati e dei professionisti abilitati. Così si è arrivati all’aprile del 2012: tutti i servizi/prestazioni dell’Inps possono essere richiesti solo in via telematica o, secondo l’Ente, in maniera solo temporanea, anche attraverso gli intermediari già citati e quindi non più presso gli sportelli delle sedi territoriali dell’Istituto. L’iter organizzativo e di informatizzazione di tutto l’apparato, prodotto e operante a un buon livello, come si può ben immaginare si è rivelato sin dall’inizio arduo e parecchio faticoso e le disfunzioni a volte, vuoi per la novità, vuoi disgraziatamente per scarsa competenza, sono apparse quasi insormontabili: solo adesso e dopo 5 anni possiamo dire che le cose vadano abbastanza bene.
Rimangono però degli inevitabili e cronici disservizi nell’offerta di prestazioni Inps, vista in particolare la struttura organizzativa della funzione pubblica, la scarsa abitudine degli assistiti a usare il computer, soprattutto e ovviamente, da parte della popolazione più anziana che è fascia sociale che più numerosa usufruisce dei servizi dell’apparato pensionistico e poi che diamine…siamo in Italia! Alcuni arrivano ad affermare che forse era quasi meglio il vecchio caro sportello.
Ma quali sono i problemi che nascono dall’uso obbligatorio di questa nuova ossatura computerizzata? Prima di tutto è necessario constatare che alla base, come l’Inps aveva spergiurato, l’affidamento all’intermediazione dei Patronati e dei professionisti abilitati doveva essere del tutto transitorio: non è tanto cambiato nulla da prima. Anzi, oltre ai disagi creati ai cittadini, i Patronati stanno scoppiando e vista la continua “pioggia” di decreti, leggi, circolari e così via rischiano il collasso, anche economico, operando nella confusione assoluta e con una mole di lavoro assurda. Figuriamoci che non è stata ancora definitivamente risolta l’incognita procedurale per poter accedere ai servizi telematici ottenendo il famoso Pin. Il più importante disservizio rimane, però, riscontrare omissioni contributive inviate dall’Istituto, anagrafiche inesatte ed errori di conteggio di contributi diretti al calcolo della pensione, il tutto a causa di dati errati, anche perché il più delle volte gli archivi non sono aggiornati in tempo reale a tal punto da inficiare e ritardare i vari iter burocratici.
Patrimonio immobiliare. Se ci si vuole fare un’opinione di come l’attorcigliarsi scellerato di andamenti politici e burocratici possono deteriorare l’interesse dei cittadini, si dovrebbe esaminare attentamente il modo in cui viene amministrato, oltre il resto, il patrimonio immobiliare degli Enti previdenziali e come tutto questo influisce nel sistema pensionistico e di conseguenza nei servizi offerti ai propri amministrati dall’Inps. La struttura gode di un patrimonio stimato, dato da circa 30 mila unità immobiliari (appartamenti, uffici, negozi, garage, terreni) il cui oltre il 40% situati nella Capitale provenienti in gran parte da Ipdap, Enpals, Ipdai e altri enti incorporati nel corso degli anni, per un valore complessivo di 2 miliardi e mezzo di euro. Una somma di tutto rispetto, che da sola coprirebbe più di due terzi della manovra annuale finanziaria italiana: a patto, però, di alienare gli immobili, cosa che ogni volta si annuncia di realizzare, ma che finora non ha attuato nessuno. Ma quanto fruttano tali possedimenti? Negli ultimi bilanci approvati dall’Inps appare che i risultati netti solo della gestione immobiliare hanno portato risultati che vanno dai -42 milioni a -90 milioni. Avete capito bene: c’è sempre un meno prima delle due cifre, il quale indica un esito negativo. È quel che l’Inps, vale a dire lo Stato italiano – che ogni anno versa nelle casse suon di miliardi – perde da anni, per non rinunciare al possesso di questi beni. Sono quasi 275 milioni di euro solo per il periodo dal 2013 al 2016.
Com’è possibile che un valore di 2 miliardi faccia perdere tutti questo denaro? Abbiamo scritto che la quasi metà degli immobili si trovano a Roma, un valore di mercato doppio rispetto a tutte le altre parti d’Italia e questo dovrebbe consentire di realizzare ottimi utili sia negli affitti a terzi, sia nell’eventuale vendita degli stessi. In ogni caso, resta l’interrogativo: se l’Inps non riesce a gestire a condizioni vantaggiose questo patrimonio, perché non se ne libera? Si può dunque facilmente desumere che il patrimonio immobiliare per l’Inps (e per i contribuenti italiani) non genera utili, ma solo costi e tributi. Così, Erario e i vari Enti previdenziali sembrano rimanere al palo e lottano all'”ultimo sangue” per far sì che indebitamente si favorisca il potere economico dei privati che in modo redditizio sta lottando per ottenere la gestione del patrimonio, destinando i vari Enti a un possibile default. Eppure se all’orizzonte le parti in causa trovassero una soluzione comune, non sarebbe meglio? Si potrebbero recuperare risorse per tappare il buco economico cronico di bilancio in modo che se ne avvantaggino tutti i poveri, i disoccupati, i pensionati e gli aspiranti tali, sia dal punto di vista economico, sia da quello di ridurre al minimo i disservizi cronici del sistema.
Ora, perché non si possa dire che quello che ho scritto finora sia il frutto di un sentito dire, di notizie apparse in rete, comunque di qualcosa di poco concreto, vi rendo partecipi di un fatto, di una circostanza che ho potuto appurare direttamente nella mia funzione di operatore Caf. Chiaramente i protagonisti della vicenda saranno citati in forma assolutamente anonima. Una vedova di Milano si è rivolta al nostro Patronato per far domanda e ottenere la pensione di reversibilità del marito defunto nel novembre di due anni fa. Tutto normale fino all’avvenuta ricezione della stessa da parte dell’Inps. Purtroppo però da quella data, e cioè dal febbraio dell’anno successivo, non se n’è più saputo nulla. Bisogna tenere presente che l’Ente pensionistico ha tempo 60 giorni per accettare la pratica o per respingerla.
Dopo fiumi di email di sollecito con la sede nazionale l’Inps di Roma Eur, affinché la pratica si potesse sbloccare non si è ottenuta nessuna risposta. Persino i dirigenti della sede di Milano non ne sanno niente. Purtroppo la signora in questione è incappata in due eventi negativi. Il primo riguarda, come si diceva prima, la fatalità che il marito nella sua carriera lavorativa ha versato i contributi in forma mista divisa tra impiego pubblico e quello privato: l’ipotesi è quindi che la pratica sia entrata nel vortice vizioso delle lotte intestine fra Enti. Va poi detto che il congiunto era ancora in piena attività, non pensionato – dunque non si parla di reversibilità, ma in termine tecnico di “indiretta con cumulo” – e aveva trascorso più di 35 anni nelle alte sfere delle carriere dirigenziali; di conseguenza nasce la rogna di tanti “euri” da sborsare per l’Ente e visti i momenti “ballerini” e le casse vuote…. Per finire, oltre la beffa di non poter avere a disposizione quanto legittimamente richiesto, il che già per sé non è poco, come la mettiamo coi i diritti sacrosanti della persona? Questo cronico handicap che nasce dall’incuria dello Stato e delle sue amministrazioni dove ci porterà?
Quattro secoli a. C., Seneca diceva: “Non possiamo dirigere il vento, ma possiamo orientare le vele”. Ecco viviamo, come già scritto prima, in una società, quella della nostra Nazione, che come già ai tempi di Seneca veleggia nell’occhio del ciclone ed è difficile venirne fuori: neanche quelli che ci governano o quelli che realmente hanno in mano il potere politico e quello sociale riescono o non vogliono trovare soluzioni affinché qualcosa cambi, figuriamoci noi, persone normali, che arrancano per tirare avanti, magari non lavorano ma comunque si danno da fare ogni giorno decorosamente. C’è bisogno di orientare, una volta per tutte, lo sguardo e la direzione verso la giusta rotta, per riappropriarci del concetto, ormai scordato, di “bene comune” e come il Papa ha ripetuto più volte: “Occorre costruire un mondo diverso, operando tenendo presente tutto ciò che riguarda l’esistenza di ogni uomo, soprattutto gli emarginati, i poveri, gli emigrati e tutti coloro che subiscono persecuzioni per la loro religione, etnia ecc…, nella difesa della libertà e della dignità”.