La Legge di bilancio – approvata in via definitiva – è stato l’ultimo atto della XVII legislatura. Le Camere si apprestano a chiudere i battenti. Che dire alla fine di quest’ultima fatica? Il provvedimento non è un granché, ma poteva essere di gran lunga peggiore. Anzi, in verità, io avrei scommesso che gli appetiti elettorali presenti in tutti i gruppi avrebbero fatto dei veri e propri danni in materie “sensibili” per la tenuta dei conti pubblici e nel campo delle riforme più significative compiute negli ultimi anni. I rischi non mancavano. Tanti avvoltoi svolazzavano sui Palazzi del potere: dalla nona salvaguardia per gli esodati fino alla riapertura di “opzione donna”, per non parlare dell’aggiunta di qualche tipologia di lavoro disagiato – oltre alle 15 già individuate dopo il confronto con i sindacati – da esonerare dall’applicazione dell’incremento automatico dell’età pensionabile di vecchiaia a 67 anni a partire dal 2019 (a questo proposito è già stato varato il relativo decreto amministrativo: la foglia di fico è rimasta a coprire le pudende).



A un certo momento – quando il disegno di legge è approdato in seconda lettura alla Camera nel testo varato dal Senato (Dio l’abbia in gloria perché la Camera Alta ancora una volta ha dimostrato dei avere quella marcia in più che gli ha consentito di insabbiare il vergognoso disegno di legge Richetti sui vitalizi) – i tanti “difensori della fede” si erano prodigati a mettere in discussione la riforma Poletti dei contratti a termine (nella durata e nel numero delle deroghe) e una delle questioni centrali (attraverso il raddoppio dell’indennità risarcitoria minima da 4 a 8 mensilità) del contratto di lavoro a tutele crescenti. Per fortuna la commissione Bilancio è stata all’altezza del suo ruolo. Così “i pifferi di montagna” venuti per suonare sono tornati, suonati, sui loro passi.



Avvalendoci del contributo essenziale fornito dalla newsletter del sen. Giorgio Santini, capogruppo del Pd in commissione Bilancio del Senato, vediamo allora una sintesi dei principali contenuti della legge, la quale prevede innanzitutto il blocco dell’aumento di Iva e accise per 15 miliardi. Sono contemplati, inoltre, interventi:

– di sostegno agli investimenti privati e pubblici per rafforzare la crescita, con vantaggi sugli ammortamenti, con il mantenimento degli eco-bonus e del fondo pubblico Investimenti infrastrutture fino al 2030;

– di aiuto alle famiglie con la conferma del bonus per i figli per i primi tre anni e l’innalzamento a 4.000 euro della soglia entro la quale è riconosciuta la corresponsione degli assegni famigliari per i figli a carico fino al compimento dei 25 anni;



– di rafforzamento dell’anticipo pensionistico (Ape Social) a 63 anni anche per 15 categorie di lavori gravosi, che vengono altresì esclusi dall’aumento automatico dell’età pensionabile in relazione con l’incremento dell’aspettativa di vita con previsione dopo il 2019 di una differenziazione di calcolo nel caso di lavori pesanti;

– di stabilizzazione, nella scuola, Università e Ricerca, di lavoratori a termine;

– di crescita del Fondo Sanitario Nazionale fino a 113 miliardi e una parziale ma significativa riduzione del c.d. superticket per le fasce più deboli;

– di rafforzamento del Reddito di Inclusione (REI) per il contrasto alla povertà che andrà in vigore già dal 1 gennaio 2018;

– per l’istituzione di un Fondo di 100 milioni a favore dei risparmiatori gravemente danneggiati dalle crisi delle banche;

– per assicurare alle Province e alle città metropolitane i fondi necessari in particolare per l’esercizio delle funzioni fondamentali in materia di manutenzione delle strade e delle scuole. I Centri per l’impiego, rimanendo dislocati come ora nel territorio, saranno gestiti dalle Regioni. Viene migliorata la possibilità dei Comuni di gestire i propri bilanci con un aumento della possibilità di utilizzare l’avanzo ed una gestione più equilibrata del Fondo di riparto delle risorse.

Come si vede la legge si accontenta di una manutenzione più che ordinaria. La misura da seguire con maggiore attenzione riguarda lo stanziamento rivolto a contrastare la disoccupazione giovanile con una riduzione del 50% della contribuzione per tre anni sulle assunzioni a tempo indeterminato di giovani fino a 35 anni nel 2018 e successivamente fino a 30 anni. Dovrebbe essere una misura destinata ad assumere un carattere strutturale allo scopo di ridurre il costo del lavoro agendo sul c.d. cuneo fiscale e contributivo, la cui ampiezza è sicuramente un ostacolo sul terreno di una maggiore occupazione.

In proposito un recente studio dell’Istat ha fornito nuovi dati. Il cuneo fiscale e contributivo è pari al 46% per il lavoro dipendente. Il costo del lavoro, che è dato dalla somma delle retribuzioni lorde dei lavoratori e dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro, dal 2006 al 2015 mostra un andamento crescente segnato dalla riforma delle aliquote fiscali e contributive nel 2007, a cui è seguito un costante incremento del carico contributivo e delle imposte soprattutto per la crescita delle addizionali regionali e comunali. Nel 2015 – l’anno a cui si riferisce il rapporto Istat – il costo del lavoro è risultato pari in media a 32mila euro. La retribuzione netta che è restata a disposizione del lavoratore ha rappresentato poco più della metà del totale del costo del lavoro (54%, pari a 17.270 euro). La parte rimanente (46,0%, ossia 14.729 euro) ha costituito il cuneo fiscale e contributivo, ossia la somma dell’imposta personale sul reddito da lavoro dipendente e dei contributi sociali del lavoratore e del datore di lavoro.

La componente più elevata del cuneo fiscale e contributivo è data dai contributi sociali dei datori di lavoro (25,4%) mentre il restante 20,6% risulta a carico dei lavoratori: il 14,0%, sotto forma di imposte dirette e il 6,6% di contributi sociali. Ecco spiegati quindi gli effetti negativi di un sistema di welfare oneroso sull’occupazione, specie quella giovanile. Il costo del lavoro risulta più elevato al Nord rispetto alle altre ripartizioni e la quota di retribuzione netta a disposizione del lavoratore raggiunge, infatti, il valore minimo del 52,6% nel Nord-ovest. Per quanto riguarda le percettrici di reddito da lavoro dipendente, il costo del lavoro è circa il 75% di quello dei dipendenti e la retribuzione netta è pari al 79,3% di quella maschile.