Grandi assenti dal nuovo contratto collettivo di lavoro dei dipendenti statali (270.000 dipendenti circa di ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici, Cnel, Agid ed Enac) sono l’innovazione e la semplificazione della costituzione e gestione delle risorse. Dopo 9 anni di stasi, ci si aspettava molto, forse troppo dal contratto collettivo che farà da apripista per le successive contrattazioni. Vista l’imminenza delle elezioni politiche, l’obiettivo reale non poteva certo essere la coloritura della parte normativa del contratto con le potenziali notevoli innovazioni fondate sulla riforma Madia; l’attenzione è stata mirata soprattutto sulla tempistica, per giungere in tempo ad assicurare aumenti economici “spendibili” al momento delle elezioni.



Ovviamente, la parte sindacale ha colto al volo l’occasione di una sostanziale identità di intenti col Governo, sicché nella realtà si tratta di un contratto di 96 articoli, molti dei quali, però, sono la riconferma di istituti precedenti. Il vero “succo” consiste nell’incremento “medio” degli 85 euro e nel risultato, ottenuto dalla parte sindacale, di aver concentrato gli aumenti stipendiali sulla parte fondamentale e stabile, senza disperderla in incentivi e premi variabili. Il costo, come è noto, sarà di circa 2,8 miliardi. Ne mancano quasi altrettanti, necessari per finanziare i contratti dei comparti regioni-enti locali e sanità: gli enti di questi comparti dovranno reperire le risorse dai propri bilanci. Un costo complessivo di oltre 5 miliardi, che finisce per ridurre di molto l’impatto positivo sui conti pubblici della progressiva diminuzione della spesa pubblica corrente del personale, dovuta alle politiche di congelamento della contrattazione e dei tetti di spesa.



Appare abbastanza chiaro che, proprio per l’impatto molto rilevante sulla spesa pubblica, la stipulazione del contratto collettivo non può oggettivamente qualificarsi come un “risultato” legato a politiche governative di investimento sul pubblico impiego; null’altro è se non l’attuazione necessitata della sentenza della Corte costituzionale 178/2015, che considerò incostituzionale il blocco della contrattazione, imponendo al Governo di farla ripartire.

Certo, analizzando il contratto si riscontrano alcuni elementi di novità, come i permessi per matrimonio estesi alle unioni civili o la fruizione dei permessi per motivi personali, prima obbligatoriamente utilizzabili per giornate intere, anche in ore. Sulla stessa linea della flessibilizzazione e delle tutele sono i congedi straordinari per donne vittime di violenza e le 18 ore annue di permessi per visite e prestazioni sanitarie, che consentiranno di non perdere un’intera giornata lavorativa.



La novità maggiore avrebbe, però, dovuto essere la semplificazione della determinazione delle risorse della contrattazione decentrata e del loro utilizzo, anche allo scopo di scongiurare in futuro l’enorme contenzioso generatosi negli anni a seguito di ispezioni dei servizi del Mef, dovuto prevalentemente a errori nella quantificazione dei fondi che unanimemente si ritiene in gran parte si correlino a modalità di calcolo estremamente oscure e stratificate negli anni in modo caotico. L’auspicato necessario riordino della materia manca del tutto. Il contratto ha solo stabilito che nel 2018 si consolidano le risorse del 2017, ma senza fornire alcuna indicazione nuova o una formula di calcolo incontrovertibile per quantificarle.

Anche l’utilizzo delle risorse rimane farraginoso e scomposto nei soliti mille rivoli. Il contratto, per questo aspetto, introduce se possibile una nuova complicazione. Infatti, nell’intento di introdurre un meccanismo di valorizzazione dei dipendenti più produttivi alternativo alle fasce introdotte dalla riforma Brunetta (e mai applicate) e recentemente abolite dalla riforma Madia, prevede un sistema regolatorio abbastanza complesso. In sostanza, si stabilisce che almeno il 30% delle risorse a disposizione delle amministrazioni per la contrattazione decentrata finanzi i premi per il risultato individuale. Tale premi dovranno essere maggiori del 30% rispetto alla media dei premi attribuiti al personale. Saranno i contratti decentrati a stabilire quanto del personale che avrà ricevuto le migliori valutazioni avrà diritto al sovrappiù di premio.

C’è, però, da precisare che il 30% delle risorse da destinare al finanziamento del risultato individuale è da computare non sull’insieme delle risorse contrattuali, ma solo su quelle cosiddette variabili, alimentate annualmente da componenti che possono modificarsi anche significativamente, come sponsorizzazioni, risparmi derivanti da piani di razionalizzazione, ratei di assegni di anzianità o indennità particolari di personale cessato dal servizio l’anno precedente.

Queste risorse variabili, oltre a essere incerte, sono anche piuttosto ridotte rispetto al grosso dei fondi per la contrattazione decentrata, composto dalle risorse “stabili”, quelle che si consolidano rispetto al 2017. La gran parte delle risorse stabili, tuttavia, sarà sottratta alla contrattazione sulla destinazione, perché riservata a pagare le cosiddette “progressioni orizzontali”, cioè incrementi stipendiali fissi e continuativi (che molti confondono con l’abolito scatto di anzianità) e le “posizioni organizzative”, incarichi, cioè, attribuiti ai funzionari di massimo livello, molto simili ai cosiddetti “quadri” del lavoro privato.

Dunque, al risultato potrebbero essere dedicate risorse molto magre. Peraltro, il contratto prevede che siano sempre le risorse variabili a finanziare indennità di turno, disagio, rischio, gravose articolazioni orarie e reperibilità; ciò, però, creerà rilevantissimi problemi gestionali. Infatti, tutte queste tipologie di indennità finanziano situazioni oggettive: se un lavoro è disagiato o a rischio, lo è per sua natura; se l’amministrazione decide di svolgere servizi organizzati per turni, l’indennità di turno va necessariamente pagata: com’è possibile, allora, finanziare indennità da considerare fisse in relazione alla tipologia del lavoro svolto, con risorse incerte, quali sono quelle variabili? Come si nota, siamo ben lontani dall’auspicata semplificazione gestionale e, al contrario, le regole sintetizzate prima si prestano a interpretazioni e applicazioni controverse e probabile fonti di nuove incertezze e contenziosi.

Infine, il contratto ha di molto edulcorato la “punizione” per le cosiddette assenze strategiche, quelle, cioè, organizzate in continuità con le festività o “di massa”. La legge Madia prevede che laddove questo tipo di assenze abbia un tasso superiore a medie nazionali (da rilevare, ma manca ancora un metodo generale allo scopo), le risorse del fondo per la contrattazione vadano ridotte anche a carico dei dipendenti che in realtà non abbiano dato corso alle assenze di questo tipo.

Il contratto collettivo, incaricato dalla riforma Madia di attuarne le previsioni, anche in questo caso rende la sanzione molto più blanda. Si limita a stabilire che laddove mai siano disponibili le medie nazionali delle assenze, non accadrà nulla: l’organismo paritetico che occorrerà istituire tra amministrazioni e sindacati indicherà, per l’anno successivo, “obiettivi di miglioramento” nella gestione delle assenze; se questi obiettivi non saranno ottenuti, l’anno successivo non potranno essere incrementate le risorse variabili e la contrattazione decentrata potrà fornire indicazioni per incidere eventualmente sui premi individuali. Elezioni troppo vicine non consentivano molto di più.