“Il 2017 è stato su molti versanti il miglior esercizio nella storia di Gi Group”, dice a ilsussidiario.net Stefano Colli Lanzi, fondatore e Ceo della multinazionale dei servizi per il lavoro, saldamente fra le Big Four del mercato italiano. “I primi dati di consuntivo ci parlano di un incremento del giro d’affari superiore al 20%, con progressi importanti anche nei margini reddituali”. In breve: la lunga parentesi iniziata nel 2008 – non solo in Italia – può essere considerata chiusa. Ma sarebbe riduttivo e fuorviante confrontare le cifre del 2017 con quelle di dieci anni fa. Non è soltanto la ripresa del ciclo ad aver spinto i risultati di Gi Group, ormai fra i primi venti player del ranking globale. Il cammino di crescita si è innestato soprattutto nella capacità competitiva del gruppo: nell’ampiezza, nello spessore, nell’efficacia delle risposte date a un mercato del lavoro in rapida e profonda trasformazione. “La reazione alla recessione – sottolinea Colli Lanzi – ha spinto le imprese a cambiare in modo deciso le loro politiche delle risorse umane. Chi oggi torna ad assumere non è più concentrato sul costo della singola risorsa, oppure sull’ottimizzazione del cuneo fiscale come variabile critica: è invece molto più attento alla qualità di chi entra nella sua organizzazione e ai modi in cui vi accede. L’assunzione è sempre più un investimento complesso in capitale umano: sia che si tratti di lavoro somministrato sia che comporti azioni di selezione, progetti nel campo della formazione, interventi di consulenza. Le imprese rivolgono alle agenzie una domanda sempre più a valore aggiunto, chiedono soluzioni-processo”.
Il 2017 è stato un anno di svolta?
Certamente Gi Group è riuscita ad accompagnare e talora a stimolare il cambiamento sul mercato del lavoro facendo leva sul proprio cambiamento. La crescita robusta del mercato dei servizi per il lavoro non è solo un brillante traguardo congiunturale, ma testimonia l’impegno nostro e dei nostri concorrenti a essere player attivi sul piano strategico. L’uscita dalla crisi sta effettivamente maturando una svolta culturale prima che economica: il lavoro è una risorsa preziosa, sia per chi lo offre, sia per chi lo chiede. L’agenzia dev’essere all’altezza di questa svolta con una gamma di servizi adeguata: se Gi Group non lo fosse stata nel 2017 non avrebbe visto crescere in questa misura i suoi volumi, molto più del Pil e dei trend occupazionali, e soprattutto i margini.
L’impatto della tecnologia sta rivoluzionando anche il mercato del lavoro. Come si muove Gi Group?
Faccio un esempio fra tanti: lo sviluppo di applicazioni orientate ai social ci ha consentito di abbattere i tempi di domanda/risposta per il personale richiesto dai locali pubblici nel fine settimana. Una pizzeria può aver bisogno di un addetto in tempi rapidissimi, ma anche l’addetto ha la possibilità di rendersi disponibile in tempo ultra-reale. Questo è il valore aggiunto che cerchiamo di immettere ogni giorno nel mercato del lavoro somministrato e negli altri segmenti. E sulle piattaforme social facciamo transitare un numero crescente di servizi complessi: non basta raccogliere e selezionare curriculum, una community è efficace se risponde anche ai bisogni di formazione di chi ne fa parte.
Gi Group è una realtà multinazionale e multibusiness. Quali sono state le proiezioni del 2017?
Dopo anni di aggregazioni mirate e di integrazioni senza soste, il nostro gruppo è divenuto veramente organico. Tutte le competenze che si sono via acquisite e sviluppate – penso a OD&M nella consulenza HR, a Intoo nell’outplacement, a Wyser nella ricerca e selezione middle manager, a Exs nell’executive search, ad Asset nella formazione, eccetera – lavorano ormai in modo perfettamente correlato. Il cuore di Gi Group resta la somministrazione di lavoro ma il suo ritmo è lo stesso, ben sincronizzato, in tutte le unità del gruppo. L’eccellenza è un patrimonio comune, accumulato da tutti e al servizio di tutti.
E il network internazionale?
Vorrei anzitutto sottolineare che i numeri realizzati da Gi Group in Italia non hanno una significato solo “domestico”. Il mercato italiano è considerato di prima linea per tutti i big player internazionali. Gi Group è italiana, ma l’Italia per noi non è un tranquillo mercato di casa. Il nostro mercato elettivo resta certamente l’Europa, in tutte le sue regioni. Abbiamo tagliato nuovi traguardi importanti: più delle attese in Portogallo, molto soddisfacenti in Spagna, Polonia, Romania, Repubblica Ceca. Lo sbarco in Gran Bretagna procede in un’ottica multibusiness e contiamo di completare nel 2018 la fase di radicamento in quel mercato con gli obiettivi che ci siamo posti. Fuori dall’Europa siamo soddisfatti dei risultati in Sudamerica, dove siamo presenti soprattutto in Brasile, e in Cina, dove solo nella ricerca e selezione di profili qualificati operano ormai un centinaio di colleghi. La nostra strategia estera procederà nel 2018 principalmente in chiave di consolidamento: di messa a valore degli investimenti fatti negli anni e nella valorizzazione delle peculiarità del “modello Gi Group” in tutti i mercati.
Da tempo Gi Group riflette sull’ipotesi di quotazione in Borsa.
Dopo l’adesione al Progetto Elite di Borsa italiana le nostre riflessioni proseguono, avendo attenzione sia alle nostre valutazioni strategiche interne sia all’evoluzione dei mercati finanziari. Non escludiamo di concludere la fase di studio nel 2018, assumendo le decisioni opportune.
In primavera sono in agenda in Italia le elezioni politiche. Il Jobs Act è stato forse la riforma più impegnativa varata nell’ultima legislatura. Quali sono le attese di politica del lavoro per un operatore di mercato come Gi Group?
Noi di Gi Group abbiamo da subito considerato il Jobs Act un’ottima riforma, di cui il Paese aveva bisogno. Non siamo sorpresi che all’estero guardino alla riforma italiana. Per questo il nostro augurio è molto semplice: che la nuova normativa non subisca modifiche, che la si lasci lavorare. I benefici attesi dal Jobs Act hanno bisogno di tempo per concretizzarsi: è fuorviante fermarsi agli impatti di corto periodo degli incentivi alle assunzioni. Il valore autentico liberato dalla riforma è la fiducia che la cooperazione fra politica del lavoro e operatori del mercato del lavoro possa generare posti di lavoro veri, buoni, “sani”. Questo sta già accadendo e in futuro i risultati possono essere strutturali, a patto che ci lavoriamo tutti a dovere.
Ma molti giovani restano ancora senza lavoro…
E’ vero, ma il problema è più radicato di quanto si pensi nel sistema scolastico che nel mercato del lavoro. In questo momento. ad esempio, in Italia sono scoperti molte decine di migliaia di jobs informatici. Il mismatching fra programmi scolastici e lavoro concretamente disponibile nell’Azienda-Paese è ancora troppo marcato. L’orientamento a scuola e nelle università non funziona a dovere, ma soprattutto l’education impartita nelle scuole italiane è ancora troppo divergente rispetto alle esigenze di un’economia “della conoscenza”, caratterizzata da competenze che la scuola non riesce a dare. Ecco, un nuovo governo potrebbe ripartire da uno “School Act”.