Un futuro previdente o una previdenza futura potrebbero sembrare due asserzioni “simili ma diverse”. Invece attestano l’unica verità percepibile dai nostri sensi: il 2017 sta per finire e il 2018 è alle porte. Di fatto con gennaio saremo già astronomicamente nel prossimo anno, con questi ultimi giorni di dicembre siamo invece astrologicamente già condotti, per il tramite del Capricorno, oltre l’anno in via di esaurimento. Così il tempo di questi giorni spinge da una parte a fare un bilancio di quello che è avvenuto nella previdenza e ad avanzare una previsione di quello che potrebbe accadere dal 1 gennaio in poi. Spinge a essere simbolicamente come Giano il Bifronte.
Non è stato malaccio quello che è accaduto fino a settembre, anzi se posso dirlo con chiarezza: dopo settembre è stato positivo. Il mio innato ottimismo limato dal buon pessimismo della ragione, di kennediana memoria, mi spinge a dire che è stato molto positivo se paragonato a quanto accaduto in anni passati, dove ciò che è stato fatto è simile a quanto facevano i possessori di auto del primo decennio del secolo scorso per metterle in moto. Di sicuro il relativismo dice che il mio “molto positivo” non è di certo quello di Salvini, di Di Maio e di una buona parte del centrodestra come anche di ampie aree del centrosinistra. Ma un fatto, incontestabile da parte di tutti, c’è: la macchina è stata messa in moto dopo circa un biennio di tentativi di avviare non tanto un dibattito, quanto un dibattito serio.
Il 2017 ci lascia con alcune condizioni basilari poste a fondamento di possibili future – e positive, ripeto – evoluzioni e con due questioni irrisolte che limitano, a mio solo parere, quelle evoluzioni, condannando il nostro sistema previdenziale all’immobilismo. Vediamo quali sono le une e le altre. La prima condizione è data dal comune sentire che dà fondamento all’accettazione della flessibilità e dell’anticipo previdenziale come azioni e rimedio tra quelli possibili per opporsi al dissesto post-crisi e post-esodati. Le due successive sono: a) la diversa posizione del governo rispetto al passato, che è più proattivo. È una posizione che pur ridisegnata nei termini che la fanno apparire in un quadro di condivisione, “profuma” e non poco di aspettative su esiti concertati; b) la ripresa del dialogo e di un confronto sindacale anch’esso proattivo in materia. Prima obnubilato dal punto di vista sostanziale, questo appare un confronto dove i sindacati appaiono negli ultimi due anni dimentichi di un ritornello sentito per molto tempo. Ritornello di negazione su un coinvolgimento, una volta trascorso il periodo della concertazione. “Il sindacato non fa proposte, il sindacato non progetta, ascolta, valuta, agisce. I ruoli non vanno confusi né con quello delle aziende, né con quello del governo”.
Alla fine, concomitante una serie di fattori, non ultimo l’apertura-invito a farsi interlocutori di proposta e non solo di approvazione e/o negazione, finalmente è stata presentata una serie di prime proposte rientranti nel quadro dell’economia del lavoro e della previdenza. Questo dopo che a mia memoria (corta) l’equivoco di non fare politica per evitare contaminazione e perdita di visione obiettiva della realtà ero cresciuto ipertroficamente fino a privare il sindacato stesso del senso della realtà della propria materia in termini macro.
Un’altra condizione è invece la rivisitata posizione di Tito Boeri nella materia dopo la presentazione a raffica di mitragliatrice di tutti i suoi j’accuse et je propose. Incredibile ma vero, a settembre 2017 il Presidente-Professore presenta alla Camera dei deputati il rapporto dell’Inps con l’obiettivo di potenziare il mercato del lavoro e il sistema previdenziale. E qui la sorpresa: depotenziate, affondate dalle critiche, e dimenticate, le proposte di equità con il ribaltamento dei sistemi esistenti (anche se il retributivo è in via di estinzione futura), qualcosa di nuovo appare all’orizzonte. È un nuovo che riprende pur in angolazioni dissociate “quanto di vecchio” era stato avanzato su queste pagine. Che devo dirvi… Si vede che critica dopo critica Boeri ha iniziato a leggerci e a rendersi conto che poi, palleggiando in campo, nella direzione giusta (immigrati, quota anni 67, disagio giovanile e mancanza di previdenza di sostegno) si può arrivare a dare una visione maggiormente utile per affrontare problemi di non poco conto.
Quello che l’Inps individua in termini di salario minimo, di assicurazione salariale e di pensione futura interrelata tanto alla forma dei contratti, quanto al livello della contribuzione di partenza porta alle nostre “pregresse considerazioni sistemiche”. E tali considerazioni non possono prescindere dall’augurio che si vuole rivolgere al Presidente-Professore o a chi per lui, od oltre di lui, di dare avvio alla miglior proposta di separazione della previdenza dall’assistenza. Tutti sappiamo come la fiscalizzazione dell’Ape sociale la renda nella sua forma spuria, più una forma assistenziale che previdenziale. E poi cosa dire? I sindacati la reclamano a gran voce (finalmente dopo anni di “voce che grida nel deserto”).
L’ultima significativa condizione è il venir meno dell’intoccabile tabù della previdenza su tre pilastri. Come forma tecnica, o come forma di soccorso a coprire le complicanze insite nell’Ape volontaria – il cui varo è stato più simile a una gestazione umana che al varo di un provvedimento previdenziale -, c’è Rita, la via per mettere a regime la flessibilità optando nella scala delle scelte dove allocare il proprio investimento previdenziale, sempre più connotato dalla componente immateriale del bene-essere, che non da quella del rendimento delle gestioni di riferimento. Anche questa base ritrovabile nella proposta di “Riformare la Riforma” dove con la contribuzione volontaria il pensionando è in grado di optare per quale soglia e con quale montante può orientare la sua uscita, si riapre il quadro di dove sia conveniente investire per il proprio futuro. Saranno sempre valide scelte sul secondo pilastro, come ad esempio, polizze united linked che quando hanno guadagnato lo hanno fatto grazie alla valenza fiscale? O varrà scommettere sul primo contribuendo ad un risanamento implicito motu proprio?
In tutto ciò che appare descrizione di una problematica di un Paese normale sopravanza l’ombra di tutto ciò che di normale non c’è in un Paese del G7 tra i maggiori industrializzati del mondo. Tanti passi significativi sono stati fatti, ma non sono sufficienti o forse lo sono, parzialmente, in relazione alle risorse disponibili. E qui veniamo ai constraint, come li chiamano i miei colleghi anglosassoni, che danno debolezza alle fondamenta di quanto si sta cercando di fare. E come anticipato sono due.
Il primo è il rischio di disperdere in rivoli, attraverso una serie di interventi, liberi, negoziati, contrattati, interventi che possano apparire minimali per limitatezza di risorse, ma che minimali nella sommatoria completa e pluriennale non sono. È quella che io chiamo la riforma o la politica del patchwork. Non è letale, ma dannosa, perché è priva di una visione che è quella che serve al decisore politico, è debole nei numeri perché richiede sforzi di ricomposizione di fonti e normative diverse per arrivare a un dato di sintesi che conferma o smentisca la bontà di quanto si sta facendo o si vuole fare. A mio parere ci vuole la visione dei dati, come quando si conosce casa propria e quello che c’è dentro prima di fare trasloco o lavori vari e quindi di attribuirvi le risorse necessarie. Questo è un Paese che non fa Sistema Paese, ma che varrebbe la scommessa di fargli fare Paese a Sistema. Non è una battuta. È una logica. Si può fare un Paese a sistema 4.0 attraverso i big data, la conoscenza delle risorse, l’ottimizzazione delle stesse e la selezione scalare degli impieghi fino alla copertura del tessuto socioeconomico che necessita di questi interventi.
Il secondo constraint è il massimalismo spocchioso o il pessimismo deteriore o l’ottimismo ignorante. Sono tre connotazioni, condizioni, cui potrebbero far corrispondere altrettanti nomi della politica che amano creare proseliti che possano sostenerli, con un meccanismo psicopedagogico molto simile a quello che vige nelle sette. La politica per fare e per dare risultati, e anche per sbagliare, ha bisogno di generosità. Generosità nelle idee, nei confronti, nelle mediazioni, negli accordi. Poi si pagano (magari) anche i prezzi degli errori, ma tutto ciò che non si fa o non si deve fare perché dà fastidio a chi è fuorigioco o si tiene lui stesso ai margini per motivi qui ininfluenti e non interessanti. Ma nulla, ripeto, nulla può ostacolare le coscienze dotate di buona volontà.
E alla buona volontà ci rivolgiamo nel 2018 per richiamare l’attenzione a quello che la stessa Fornero, dopo Boeri e la Triplice con Poletti iniziano a trovare condivisibile: una previdenza che non è vero che trasla il suo costo sulle spalle del lavoratore… come ogni tanto i veteroscheletri dalemiani e D’Alema stesso ripetono. Bensì una previdenza che è costruita con responsabilità di scelta dal lavoratore. E siccome il nostro Paese – come dicevo prima – è quello che è, va sempre recuperato in un quadro d’insieme il lavoro che si deve creare, perché quello da turnover è più debole di quello che nasce e si solidifica con la formazione permanente, la flessibilità e tutto quanto ciò che lo rende il lavoro fisso, cosa completamente diversa dal posto fisso.
Allora sì che si potranno evitare altre trappole, quelle vere (altro che 67 anni) presenti nella Fornero grazie alla sapienza infusa dei suoi consulenti, ricercatori, dirigenti ministeriali, ecc. Tutti coloro, cioè, che hanno guardato al pezzettino del segmento e non all’intera retta. Non scherzo. Andate a considerare il valore dell’assegno minimo necessario alla pensione di vecchiaia a dato certo di contributi per i nati dopo l’1/1/1996 (mio figlio) e vi accorgerete che se non supera di 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (700 euro quello ottenuto dalle simulazioni Inps), il vostro amato figliolo, come il mio dovrà rinunciare – bontà sua – ad andare in pensione a 67 anni perché gli toccherà, a legislazione invariata, andarci a 70 anni e 3 mesi.
Cosa vuol dire tutto ciò? Una sola cosa. Il 2018 non può essere l’anno delle occasioni perdute come le intendono i nostri sindacalisti, politici, esperti, ecc., ma deve essere l’anno della sfida vinta sulle cose serie, perché non serve modificare una variabile della situazione che è normata (per esempio riconoscendo più contributi fiscalizzati) se non si tengono conto di tutte le altre (il livello del debito che andrà a sommatoria). Cerchiamo di fare meno campagna elettorale e pensiamo più responsabilmente al futuro che stiamo preparando per i nostri figli, con la preghiera per i vari presidenti/professori/esperti/ e politici di vecchio e nuovo/lungo e corto corso di fare bene i compiti affidati!