Un giovane si è ucciso lasciando una lettera di giustificazione per il suo gesto disumano in cui ha lamentato di sentirsi buttato via. L’assenza di lavoro e lo spreco delle sue capacità erano richiamate più volte. Non conosco il caso in tutte le sue sfaccettature. È probabile che pesasse su di lui un disagio psichico e che non avesse trovato percorsi di cura adeguati. Ma la denuncia lucida che appare dalle sue parole è che mancavano relazioni umane. E il lavoro, vedere riconosciuta la propria capacità professionale, sentirsi utili per il contributo che si riesce a dare agli altri, è la prima e fondamentale relazione con la realtà e con gli altri. Così importante che se diviene l’unico assillante misura della propria esistenza si trasforma in una malattia.



La stampa ha dedicato articoli di prammatica, citato il caso in cronaca. Ma tralasciamo l’aspetto medico-assistenziale e concentriamoci sulla richiesta di aiuto per trovare lavoro, chi avrebbe dovuto farsi carico di rispondere al bisogno che veniva espresso? Siamo tutti specialisti nel lamentare continuamente cosa non va nel nostro Paese. C’è bisogno di lavorare e studiare di più. Chiediamo quindi a tutti di dirsi disponibili a lavorare, ma poi ci lamentiamo che così aumenta il tasso di disoccupazione. Non badiamo che nel frattempo c’è una ripresa degli occupati. Meglio diventare abili statistici, ma non accettiamo di vedere che i paesi con l’80% di tasso di occupazione hanno facilitato l’uso del part-time e di strumenti simili ai voucher. Noi siamo specialisti in definizioni colorite. Vogliamo lavoro di qualità. Ma lavorare tutti e poi vedere di lavorare meglio non è più utile per uscire dalla crisi?



Puntiamo a fare crescere la frequenza universitaria, obiettivo sacrosanto, ma guardiamo il numero degli iscritti e ci rallegriamo senza vedere che il 30% abbandona gli studi e non si laurea mai. A chi arriva alla laurea riserviamo un trattamento speciale. Salari di ingresso (se a tempo indeterminato o analogo) mediamente del 30% in meno rispetto ai loro coetanei europei. E come deve sentirsi un neolaureato sbattuto fra stages e tirocini (contratti peraltro non di lavoro ma formativi) dove riceve meno della “paghetta” che gli passava la famiglia durante gli anni di studio? Eppure la necessità di implementare il nostro capitale umano è il primo impegno richiesto da qualsiasi funzione di sviluppo si voglia applicare al caso italiano.



C’è qualcuno che si occupa di questi temi. Girando le realtà italiane si incontrano centri di formazione che non si sono fermati ai corsi di formazione professionale per giovanissimi, ma hanno portato la loro capacità educativa più avanti facendo corsi professionalizzanti sia a livello di diploma che di laurea. Vi sono quasi 100 fondazioni Its che vedono impegnati formatori e imprese per corsi professionalizzanti con valore pari alla laurea triennale e che sono dedicati a figure professionali non previste dai corsi di studio tradizionali. Svolgono anche il ruolo di recupero di percorsi di studio abbandonati. Ma soprattutto formano professionisti che altrimenti sarebbero scarsi rispetto alla domanda delle imprese.

Spesso questi operatori della formazione gestiscono anche centri di servizio per il lavoro. Hanno cominciato con un ufficio di placement al servizio dei loro alunni. E questo servizio si è poi aperto al territorio e si occupano di trovare lavoro anche a chi si rivolge loro senza aver frequentato i loro corsi. Si incontrano anche associazioni di volontariato che hanno lo scopo di aiutare i disoccupati a cercare un nuovo lavoro. Svolgono un ruolo pesante di sostegno prima umano che tecnico, ma avendo sempre presente che devono saper rispondere al bisogno e non fare solo assistenza.

Quindi, cercando, abbiamo trovato molti che si prendono in carico il bisogno di lavoro, il desiderio di avere maggiori conoscenze per contribuire con la propria professionalità a fare crescere il Paese. Gli esperti di politiche del lavoro, i tanti che lavorano nelle società di somministrazione, nei settori della formazione e della selezione, i tanti dipendenti pubblici che sono impegnati nei Centri per l’impiego e nelle Agenzie per il lavoro delle regioni, conoscono bene questi problemi. È per loro pane quotidiano e spesso sono provati dal non riuscire a dare tutte le risposte necessarie ai bisogni che incontrano.

Queste realtà sono però frustrate da un blocco politico-burocratico e corporativo che non permette che tutti loro facciano rete e possano collaborare liberamente. Il Jobs Act ha previsto che con la creazione di un’agenzia nazionale per il lavoro (Anpal) si sarebbe creata una rete pubblica e privata di soggetti deputati a fornire servizi per la ricollocazione al lavoro dei disoccupati. È vero che il disegno istituzionale ottimale per il pieno svolgimento dei compiti previsti dall’agenzia era quello contenuto nella riforma costituzionale battuta nel referendum del 4 dicembre. Ma come conseguenza assistiamo a uno scontro Regioni-Stato che non ha nessuna ragione di esistere. Da un lato si cerca di rivedere l’impostazione tenendo conto dei poteri delegati alle regioni. Dall’altro si reagisce con una chiusura totale, quasi che il referendum non riguardasse il titolo quinto e i poteri regionali, ma anche la legislazione specifica sui servizi al lavoro. Si è innescato così un dialogo fra sordi in nome di logiche di potere (dove destra e sinistra nelle regioni non mostrano nessuna differenza) e i servizi restano bloccati.

Non tocca a noi indicare le infinite strade possibili per dividere la discussione sulla governance dalle necessarie misure tecniche che possono essere prese comunque e che vedono tutti d’accordo nell’analisi delle urgenze e delle soluzioni (discusse in anni di incontri tecnici cancellati da smemorati burocrati ministeriali). Ciò che urge è che emerga una classe dirigente che si assuma la responsabilità di rispondere alla richiesta di presa in carico che viene da troppi tragici eventi.

Ho bisogno di lavorare, mi aiuti? Tanti lo fanno, la politica non sente la domanda.