Cosa di buono potrà mai venire da Betlemme? E da Bruxelles? Se volessimo parafrasare, e nemmeno troppo per la verità, lo sguardo con cui oggi ci si volge verso la capitale europea, nulla sarebbe più adeguato della famosa frase evangelica. Nulla potrebbe giungere da Bruxelles, dicono oggi le indagini demoscopiche; nulla ci aspettiamo da quegli eurocrati che perdono tempo a definire l’arco giusto con cui devono curvarsi le banane, ma perdono di vista i bisogni dei popoli; nulla l’Europa attuale, delle carte e delle parole, può fare per la sua gente.



Nel “sentiment”, nella convinzione, nel parere, nell’idea, dell’uomo qualunque, non vi è spazio per la speranza, quella stessa speranza che pochi anni fa, eravamo poco prima del 1999 non del 999!, avevano suscitato l’euro, il Patto di Lisbona, il Trattato di Maastricht. L’Europa l’è morta dunque? Parrebbe di sì, assassinata dalle banche, dalla finanza, dalla burocrazia, dai nazionalismi risorgenti, dalle grandi lobbies internazionali. Sarà, ma le lobbies ci sono dappertutto, le banche e la finanza non parliamone neppure, la burocrazia impera in ogni angolo della Terra. E dunque? 



E dunque forse occorrerà puntare lo sguardo un po’ più su, oltre lo stretto orizzonte casalingo e farci qualche domanda. O magari darci già qualche risposta, come ha fatto la Cisl che ha annunciato un esalogo, un documento in sei punti proprio sull’Europa e sul suo futuro. Ma anche, ed è qui la novità, sul nostro futuro in Europa. Novità, perché andare controcorrente su questo tema non è facile per nessuno: ci starebbe anche il rischio che qualche televisione ti scateni contro la piazza, raduni un po’ di urlatori arrabbiati e accusi il sindacato di via Po di tradimento. 



Ma come si permette la Furlan, già li sentiamo, di sperare che proprio Bruxelles crei quei posti di lavoro che in Italia non ci sono? Ma cosa crede, che lassù siano interessati a noi? Da soli dobbiamo salvarci. Anzi, già che ci siamo, cominciamo a buttarci a mare prima che la nave affondi e lasciamola quest’Europa: torniamo alla liretta, alle svalutazioni, all’inflazione. Allora sì che eravamo allegri, spendevamo e spandevamo, ma eravamo felici: c’era lavoro per tutti, soldi per tutti, auto di gran lusso per tutti. Le tasse le pagavano tutti (no questo no: per la verità non le pagavano se non i soliti noti, ma tant’è), si andava a far la spesa con la borsetta piena di denaro contante (che era tanto anche se non valeva nulla), mica come adesso che non ci sono soldi, non c’è lavoro, non c’è casa. E poi gli immigrati: allora gli unici immigrati erano i calciatori delle squadre di calcio e basket. Quelli non rubavano mica il posto ai nostri figli (o magari solo a quelli che coi piedi e con il pallone erano delle schiappe fenomenali).

Perché dunque il sindacato “bianco” va così controcorrente? Perché quest’anno ricorre il 60esimo dei Trattati di Roma? Anche, ma le ricorrenze sono buone per la nostalgia non per la politica. No, dietro al manifesto per l’Europa annunciato dalla Furlan si nasconde un preciso disegno strategico. È un missile, ci si passi l’immagini un po’ truce, a testata multipla.

Da un lato la Furlan lanciando quest’idea, intende ridare fiato alle forze politiche e sociali che da sempre hanno fatto dell’Europa la casa comune. E tra queste in prima fila c’è proprio la Cisl che fin dalla sua fondazione, quando ancora c’erano le macerie fumanti della Seconda guerra mondiale, guardava al disegno europeista come a un orizzonte adeguato per le proprie politiche. In secondo luogo si tratta di sostenere le politiche espansive che oggi più che mai sono necessarie per ridare fiato all’ancora asfittica economia italiana. Di ciò potrebbe beneficiare certamente anche il Governo Gentiloni, impegnato in una discussione con la severa Commissione di Bruxelles, al quale potrebbero giovare anche la costituzione di un Fondo comune per il sostegno ai sussidi di disoccupazione, di una Unione fiscale, la realizzazione di un Ministero del tesoro europeo.

In terzo luogo il Manifesto della Cisl intende sviluppare alcune idee di politica economica, facendola finita con il Fiscal compact, e sostituendolo invece con l’Investment compact, cioè spostando l’attenzione dalla tassazione allo sviluppo industriale e produttivo. Si tratta poi di raddoppiare l’azione sindacale da Roma a Bruxelles, di spingere affinché l’azione dei singoli Governi (e dei singoli sindacati), si coordini. In altri termini allargando il campo, si allargano anche le squadre, si coinvolgono le forze sociali europee, oggi ancora restie in alcuni casi a far sentire la loro voce. Se volessimo usare una metafora calcistica, sarebbe come decidere che non si smetterà di giocare il campionato italiano di calcio, ma in compenso si darà il via a un vero e proprio campionato europeo.

Oggi, infatti, non tutti i sindacati europei sono convinti che loro compito sia quello di unire le forze e di operare insieme per un’Europa del lavoro e del sociale; non tutti accettano di discutere a Bruxelles i provvedimenti che riguardano l’Ue. Molti, soprattutto quelli tedeschi e nordeuropei, preferiscono, infatti, continuare a sviluppare il dialogo interno con i rispettivi governi, convinti come sono di ottenere così di più per i propri associati.

Costruire un vero meccanismo politico, economico e fiscale, a Bruxelles obbligherebbe infine tutti a uscire dal proprio torpore, sarebbe certo una risposta alle sfide lanciate all’Europa dal presidente Trump e dal trumpismo, sia quello vero d’oltreoceano, sia quello macchiettistico che spunta qua e là anche da noi.

Un Manifesto poco nostalgico, quindi, ma denso di proposte politiche: perché in fondo da Betlemme, per riprendere il punto da cui siamo partiti, qualcosa, meglio Qualcuno, di buono ci è arrivato. Non osiamo sperare così tanto bene dal “plat pays” di Jacques Brel, ma per quanto esso sia attraversato dalle nebbie non potrà neppure nascondere la porta dell’inferno!

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