Si torna a parlare di salari inadeguati al costo della vita e troppo diversi da regione a regione in Italia. Alcuni grandi temi sono per loro natura divisivi. Anzi, sembra proprio che le discussioni che essi scatenano siano destinate unicamente a separare. Separare chi? Chi discute, anzitutto, trasformando lentamente ma inesorabilmente miti e austeri signori dapprima in acerrimi rivali, e quindi in aggressivi e violenti (a parole almeno, ma non ci scommetteremmo sempre) tifosi. Se poi il tema del dibattito riguarda una questione come il salario e il rapporto tra i soldi che entrano in casa e il costo della vita, allora vedrete anche quiete vecchiette assumere atteggiamenti più degni di Walker Texas Ranger che di quelle brave persone che normalmente esse sono nella vita.



Perché banchieri e pensatori, economisti e analisti, giornalisti e profeti di varia natura, avranno pure con dovizia di particolari spiegato che l’inflazione non c’è più, che siamo in deflazione, che la congiuntura economica propone un nuovo panorama, che esiste il “costo della vita percepito”, ma la gente, la signora qualunque, la coppia di giovani o meno giovani, ecco la gente ha la netta sensazione che quelle analisi siano delle vere e proprie prese in giro: perché non sarà inflazione e invece sarà deflazione, ma alla fine sempre vuoto è il borsellino.



Alcuni anni or sono un geniale politico nostrano per risolvere il problema invitò tutte le massaie a risparmiare facendo il giro dei mercati: dal che la gente valutò che poca fosse la differenza tra il costo di un chilo di spinaci e un anello d’oro, specie se al costo della verdura si aggiungeva quello del tempo perso per girare in città da un banchetto all’altro. Sulle mogli, per contro, l’effetto della proposta non fu per nulla uguale, sperando esse che il marito scegliesse con la giusta attenzione ciò che più a loro aggradava. Inutile dire comunque che quel politico non riscosse un gran successo alle successive elezioni.



Il problema dei salari e del costo della vita è, invece, un problema serio, che non si risolve con battute o facili (e normalmente non richiesti) consigli. Il punto è che la liberalizzazione dei mercati ha condotto a una diversificazione dei prezzi anche da luogo a luogo e ovviamente il rapporto tra quantità di ricchezza accumulata in una regione e costo della vita è stretto, strettissimo. Non vi è forse un indicatore più netto della distanza che separa ancora tante città italiane in tema di ricchezza e benessere, come quello rappresentato dal costo della quotidiana tazzina di caffè. Si va, lo sa bene chi viaggia, dai 70 centesimi all’euro a 1,20 euro. Un esempio, banale, giornaliero, ma che, proprio perché tale, dimostra l’impatto che il blocco dei salari ha avuto sulla vita reale, per di più in Paese come il nostro nel quale il peso dei dipendenti pubblici è altissimo. 

Da qui dunque la corsa a rientrare nella propria regione di tanti professori (con la conseguente crisi delle scuole del Nord), le richieste di trasferimento verso zone ove il costo della vita sia più basso che non, mettiamo, a Milano o Varese. Ma la cosa riguarda pure larghe fette di dipendenti da imprese private: anche per loro la lotta per la sopravvivenza delle aziende si è sovente trasformata in una riduzione de facto dei salari. Assediate dalla concorrenza troppe imprese in questi anni si sono limitate a intervenire sempre più sul costo del lavoro e sempre meno su altri costi. E dunque?

Come in un pavloviano riflesso condizionato, qualcuno ha ritirato fuori dagli armadi un vecchio arnese della polemica politica e sindacale, le gabbie salariali, cioè l’idea di differenziare per legge i salari delle diverse regioni sulla base del costo della vita. A Ragusa, poniamo, un caffè costa 80 centesimi? Ecco il salario deve essere in relazione a questo livello di spesa. Per cui, se ne desume che al Nord i salari dovrebbero aumentare a dismisura (e i baristi ne dovrebbero godere in relazione, par di intendere) e al Sud d’Italia dovrebbero invece diminuire. 

Apriti cielo: come anni fa tanto bastò perché gli italiani, oltre a saper di calcio e di formazioni pallonare, imparassero anche a discettare di inflazione, costo della vita, Pil, e finanche di contrattualistica, e poi tutto tornò, come spesso succede nel Bel Paese, nel nulla, per essere di nuovo sdoganato in questi giorni, così oggi si sentono venti di guerra (televisiva) e rullano tamburi di esperti pronti alla lotta. Per fortuna, però, stavolta la questione riguarda una fetta di mondo più ampia che non i nostri angusti confini, e cioè l’Europa, la quale, in attesa che Donald Trump le faccia sapere se essa esisterà ancora di qui a qualche anno o se essa dovrà sciogliersi per favorire lo Zio Sam e la sua ansimante industria, ha scoperto che sussiste una questione salariale che la riguarda nel suo insieme. 

Mentre i nostri giornali si sono buttati sul vecchio dossier “gabbie salariali”, i sindacati anticipando i tempi e dimostrando un sano realismo, si sono incontrati e hanno lanciato un Manifesto per il salario europeo che intende affrontare il problema della qualità della vita di quella gran massa di persone che hanno provato sulla loro pelle il peso dell’austerità, le frustate della riduzione dei salari, il bruciore dell’inflazione. Il problema che i sindacati si sono posti, e che nei prossimi mesi sarà certamente oggetto di discussioni, oltre che di percorsi contrattuali e di tentativi di intese a livello europeo, è quello del rapporto tra produttività e salario: occorre aumentare la prima perché salgano i secondi o si può pensare che la busta paga potrebbe in qualche misura anticipatamente contenere quote di produttività?

Anche perché sullo sfondo di questo dibattito si staglia l’ombra di un moloch che preoccupa assai i sindacati riformisti, Cisl in testa, e cioè la diatriba tra salario minimo e salario sociale. Meglio dare a tutti un minimo per sopravvivere o dare a tutti un lavoro dignitoso e dignitosamente pagato? Gli 80 euro, cifra non casualmente citata, sono da intendere come sostegno al reddito, come investimento o come risparmio?

Il fatto è che allora, all’epoca degli 80 euro, c’era una crisi tanto nera quanto profonda. Oggi la crisi qui c’è là no, qui morde e là sussurra alle spalle come un dolce venticello primaverile. È quindi tempo, si sono detti i sindacati, di rilanciare il tema del salario sul livello europeo, non local, né global, ma appunto europeo. Perché da lì potrebbero nascere pure altre interessanti iniziative che riguardano temi connessi a quelli del salario e del costo della vita, come l’occupazione, la povertà, il lavoro. E vuoi vedere che possa essere questa la risposta del Vecchio Continente alla sfida che le arriva da Oltreoceano e dall’orso russo?

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