Nessuno è solo. Vale per le persone, ciascuna delle quali nella propria vita è inserita in una rete di relazioni personali, professionali, sociali, civili e politiche; ma vale anche per le aziende, le organizzazioni lavorative che impiegano le persone stesse, e nelle quali le persone agiscono sia con le loro competenze, capacità e aspirazioni che con i loro bisogni di cura (in senso lato), assistenza (anche sanitaria), istruzione, svago. Si tratta dei bisogni ai quali le aziende hanno dato tradizionalmente risposta con le iniziative di welfare, com’è accaduto nel nostro Paese almeno da Adriano Olivetti in poi. Eppure, afferma Luca Pesenti in apertura del suo saggio Il welfare in azienda (Vita e Pensiero, Milano 2016), bisogna anzitutto dimenticare Olivetti, se si vuole capire cosa significhi oggi in Italia welfare aziendale.



Scorrendo il saggio di Pesenti si comprende meglio come interpretare questo invito apparentemente dissacratorio: un approccio come quello dell’antesignano Olivetti, l’imprenditore illuminato che intuisce come i dipendenti più felici producano meglio e di più, è ormai obsoleto, superato dalla concezione dall’azienda “socialmente responsabile”, che ha interpretato le iniziative di welfare come una sorta di risarcimento dovuto alla società per il proprio orientamento al profitto. Anche questa seconda fase volge ora al termine, secondo Pesenti, per lasciare il posto a una terza nella quale si afferma una prospettiva finalmente sistemica. In questa nuova ottica, l’obiettivo non è più il miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore, o l’indennizzo di un presunto danno sociale, ma “la creazione di valore condiviso” di Porter e Kramer.



Il welfare aziendale cessa così di essere una concessione paternalistica del capo azienda, o l’avanguardia di una cultura organizzativa improntata alla cosiddetta Csr (Corporate social responsibility), ma un insieme organico di pratiche e soluzioni che abbracciano insieme l’azienda e il suo contesto. L’azienda, come si diceva, non è sola, alle prese con le sue dinamiche interne, più o meno conflittuali, alle quali fornire soluzioni altrettanto interne (più o meno illuminate e avanguardistiche): non va pensata come “un’isola sperduta nell’oceano” – come la chiama Pesenti citando Douglas North. È invece un organismo radicato nel tessuto produttivo e territoriale, che sempre più esprime risposte coordinate tra settore pubblico, privato e no profit, in procinto di configurarsi come un nuovo mercato. In questa direzione accennano le nascenti esperienza delle reti di welfare territoriale, l’accoglimento del tema del benessere organizzativo al centro delle relazioni industriali e della contrattazione tra le parti sociali, la stessa trasformazione digitale che coinvolge inesorabilmente le imprese e le rende “smart”: non solo digitali, ma soprattutto aperte, flessibili, in continuo divenire.



L’offerta di valore, sotto forma di servizi di welfare, al dipendente, va allora di pari passo con l’arricchimento del territorio, del contesto produttivo, della comunità tutta – e quindi della stessa azienda, la cui brand advocacy – tra i principali traguardi del nuovo marketing in Rete – migliora anche grazie al lavoro di “ambasciatori” dei dipendenti, secondo le più recenti ricerche. Un risultato che è frutto del dialogo tra due anime dell’azienda, la comunicazione e risorse umane, il vecchio “personale”. Il quale non è fatto di astratti “segmenti di mercato”, come già ricordava all’inizio del secolo l’innovativo Cluetrain Manifesto, ma di persone: mai isolate, ma connesse e correlate nell’organizzazione, nella comunità, nella società.