È sempre più diffusa tra i lavoratori – non solo dirigenti – la prassi di utilizzare la mail e di telefonare per motivi lavorativi anche al di fuori del “normale” orario di lavoro, usualmente nelle ore serali e financo nei giorni festivi o di assenza per ferie o addirittura per malattia o maternità. Tale fenomeno, in rapida estensione, è determinato anche dal fatto che ormai molti dipendenti (anche quadri e semplici impiegati) ricevono in uso il telefono, lo smartphone o il computer aziendale e sono quindi costantemente connessi con i colleghi, i clienti e i referenti aziendali.
D’altra parte, nei Paesi industrializzati sono sempre più numerosi i lavori eseguibili (almeno in parte) “da remoto” con ampia flessibilità di tempi e modi utilizzando le moderne tecnologie non più soltanto nel settore del cosiddetto “terziario avanzato”, ma ormai in tutti i settori produttivi. Anche per questo motivo è evidente la tendenza a valutare l’attività e la retribuzione del lavoro subordinato più in relazione agli obiettivi raggiunti che al tempo di lavoro impiegato, che sta acquistando sempre più margini di flessibilità. Sennonché questa generale tendenza registra, sempre più, effetti distorsivi e invasivi della privacy e della vita familiare dei lavoratori.
Al riguardo nei giorni scorsi gli organi di stampa internazionali hanno dato ampio risalto all’entrata in vigore in Francia del cosiddetto “diritto alla disconnessione”. In particolare, la Loi Travail obbliga da quest’anno le aziende con più di cinquanta dipendenti a negoziare annualmente con le rappresentanze sindacali il diritto dei lavoratori a non rispondere a mail o telefonate al di fuori degli orari di lavoro ovvero, in mancanza di accordo, a redigere un regolamento aziendale che definisca le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione e preveda l’attivazione a favore di tutti i dipendenti di programmi di formazione e di sensibilizzazione all’utilizzo ragionevole degli strumenti tecnologici.
La materia è dibattuta in Europa, ove diverse società hanno risposto in maniera differente al problema. In Germania, per citare i casi più illustri, Deutsche Telekom fin dal 2010 ha disposto che i dipendenti non siano obbligati a leggere la posta elettronica dopo essere usciti dai locali aziendali. Volkswagen, invece, dalla fine del 2011 ha sospeso le comunicazioni sugli smartphone in dotazione ai dipendenti (esclusi i soli manager) tra le 18:15 e le 7:00 del mattino. Analogamente Bayer e E.On (colosso dell’energia) hanno disposto formalmente che nel tempo extralavorativo nessun dipendente debba ricevere mail aziendali. Daimler ha addirittura stabilito che tutta la posta elettronica che arrivi dopo che il dipendente abbia attivato la risposta automatica in cui informa della sua assenza temporanea venga cancellata; mentre Bmw ha disposto che i propri dipendenti possano concordare con i superiori le ore di reperibilità al fuori del normale orario di lavoro e che dette ore siano considerate come straordinario da recuperare nel corso della settimana lavorativa.
E in Italia? La nostra legislazione sugli orari e tempi di lavoro (D.Lgs. n. 66/2003) non disciplina espressamente le prestazioni lavorative rese fuori dall’ufficio tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici, ma definisce come orario di lavoro, in linea con le Direttive europee 93/104/CE e 2000/34/CE, “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” (art. 1).
In assenza di specifici precedenti giurisprudenziali editi che abbiano affrontato la problematica, alcuni Autori hanno ritenuto superflua una normativa in materia in quanto già la legge sugli orari di lavoro (D.Lgs. n. 66/2003) renderebbe “non giuridicamente esigibile” una prestazione richiesta fuori orario e non prevista dalle regole contrattuali. Dunque, il problema sarebbe più di tipo sociale e culturale che giuridico e andrebbe affrontato attraverso la previsione di percorsi finalizzati a fornire ai lavoratori le competenze per gestire una “vita interconnessa”. Altri Autori invece, muovendo dal presupposto che mandare mail o effettuare telefonate di lavoro anche nelle ore serali, di sabato o di domenica costituisca lavoro straordinario, ritengono dovuta la retribuzione per la prestazione resa (o il recupero orario); ponendosi il problema della prova della sussistenza e della quantificazione del lavoro straordinario che può essere fornita utilizzando le mail intercorse e/o i tabulati telefonici e gli archivi degli smartphone aziendali.
È infatti principio consolidato che per ottenere la retribuzione delle ore di lavoro straordinario il lavoratore debba dimostrare in giudizio lo svolgimento effettivo del lavoro attraverso la prova puntuale e rigorosa delle attività quotidiane ordinarie effettivamente svolte e di quelle ulteriori delle quali si richiede il compenso non corrisposto (Cass. n. 9906/2015). In tale contesto si può ragionevolmente ritenere che le mail e le telefonate del dipendente, ove siano richieste o quanto meno conosciute e “sfruttate” dai superiori ovvero quando siano necessarie per pressanti e urgenti esigenze aziendali, costituiscano attività lavorativa che come tale – una volta dimostrata la loro esistenza e consistenza – diano diritto alla retribuzione con relative maggiorazioni per lavoro straordinario e/o serale o festivo.
Se venisse confermata tale impostazione, considerando che tutti i lavoratori salvo i soli dirigenti e quadri direttivi hanno di norma diritto a richiedere il pagamento del lavoro straordinario prestato anche fuori dai locali aziendali, potrebbe presto scatenarsi un ampio contenzioso sulla materia. In tal caso i rischi economici per le aziende sarebbero ingenti considerando che il termine di prescrizione per rivendicare il pagamento del lavoro straordinario, serale o festivo è di norma quinquennale (Cass. n. 2286/2012) e considerando altresì che alcune recenti sentenze, commentate anche su queste pagine, hanno ritenuto che con la sostanziale abrogazione della reintegrazione ex art. 18 Stat. Lav. la prescrizione non decorra in costanza di rapporto, ma inizi a maturare solo dal momento della sua cessazione.
Né deve trarre in inganno il fatto che in Italia, finora, non siano ancora state rese note sentenze o cause su questa materia. Come infatti il “tempo tuta”, ovvero il tempo necessario ai lavoratori per indossare e dismettere gli abiti di lavoro richiesti dall’azienda è stato ritenuto dalla più recente giurisprudenza un vero e proprio “lavoro” come tale da retribuire dopo decenni in cui il problema non si era mai posto (cfr. Cass. n. 7396/2015), allo stesso modo non è da escludere che presto si ponga un fenomeno analogo con riguardo alla retribuibilità delle nuove forme di lavoro “remoto”.
È quindi auspicabile che il Legislatore e la contrattazione collettiva italiana disciplinino rapidamente la materia tenendo conto con realismo e ragionevolezza di tutti i fattori in gioco implicati, sulla scia delle migliori esperienze degli altri Paesi. La nuova tipologia dello smartworking, già sperimentata da alcune aziende e in fase di approvazione da parte del Parlamento, è certamente una prima e interessante risposta a questo nuovo fenomeno.