Scottato dall’acqua bollente del 4 dicembre scorso, il Governo Gentiloni Silveri ha avuto paura anche dell’acqua fredda del 28 maggio. Così, con un decreto legge (dove stavano poi le ragioni di urgenza?), l’esecutivo ha dato partita vinta, a tavolino, alla Cgil, abrogando le norme sui voucher e modificando la disciplina della responsabilità solidale in caso di appalto sulla base del contenuto del relativo quesito. Paradossalmente, se si riteneva necessario evitare a tutti i costi il referendum (che non avrebbe probabilmente raggiunto il quorum, ma che avrebbe procurato guai a non finire al Pd e alla sinistra), la strada dell’autogol intrapresa dal Governo era la più sicura, perché nessuna modifica legislativa, anche profonda, avrebbe potuto garantire che la Corte di Cassazione ritenesse sufficienti e adeguate per annullare la consultazione le revisioni adottate. Sul piano del diritto, infatti, il quesito era chiaro nella richiesta di un’abrogazione netta.



Che si andasse, comunque, al referendum pur in presenza di una nuova legge, era certamente un’ipotesi remota, ma non impossibile. C’era da aspettarsi che, pure in presenza di una modifica sostanziale della disciplina dei voucher, a fronte di un’eventuale conferma del referendum da parte della Suprema Corte, ci sarebbero state, in ogni caso, delle forze politiche e sindacali pronte a insorgere a tutela dei diritti. Non si dimentichi il caso del referendum No-Triv: del quesito iniziale era sopravvissuta una parte assolutamente secondaria sulle concessioni per l’estrazione in mare, ma un’area consistente dell’elettorato non rinunciò a votare sì come se fosse in ballo la conquista del Palazzo d’Inverno (in più con il vento in poppa, a pochi giorni dall’apertura dei seggi, di un’indagine giudiziaria sostenuta da un clamore mediatico pari soltanto al silenzio che ha accompagnato la fine dell’inchiesta in una bolla di sapone).



Che cosa succederà adesso? Il Governo ha riconosciuto che delle regole vanno trovate perché l’esigenza di avvalersi di prestazioni occasionali è un dato della realtà. La stessa Cgil usava i voucher come datore di lavoro (e non solo per gli attivisti del sindacato pensionati di Bologna) e ne aveva proposto – in quel progetto di legge d’iniziativa popolare pomposamente definito “Carta dei diritti universali del lavoro” – una nuova disciplina (si vedano gli articoli 80 e 81) molto limitativa: una scelta ben diversa, tuttavia, dalla cancellazione dall’ordinamento e basta. C’è da presumere allora che Susanna Camusso metterà a frutto il successo ottenuto con la resa del Governo e sarà in grado di dettare le condizioni per una nuova iniziativa legislativa.



È il caso, dunque, di andare a consultare quei due articoli per capire come potrebbe terminare questa assurda vicenda tipicamente italiana. Si comincia con l’elenco delle attività nell’ambito delle quali sarebbe consentita tale tipologia di lavoro (attraverso un vero e proprio contratto tipizzato): a) i piccoli lavori di tipo domestico familiare, compresi l’insegnamento privato supplementare, i piccoli lavori di giardinaggio e l’assistenza domiciliare occasionale ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con handicap; b) la realizzazione da parte di privati di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli di piccola entità. Quanto ai limiti soggettivi, secondo la Cgil, potrebbero svolgere lavoro subordinato occasionale i seguenti soggetti: a) studenti, b) inoccupati, c) pensionati, d) disoccupati non percettori di forme previdenziali obbligatorie di integrazione al reddito o di trattamenti di disoccupazione, anche se extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.

Il singolo lavoratore potrebbe essere occupato presso lo stesso datore di lavoro, in virtù di uno o più contratti di lavoro subordinato occasionale, per un periodo di tempo complessivamente non superiore a 40 giorni nel corso dell’anno solare, e i relativi compensi non dovrebbero essere superiori a 2.500 euro (i 7mila euro del resto sono risultati una sorta di miraggio). Stranamente è previsto un divieto per i percettori di ammortizzatori sociali. Ma il bello viene quando si passa alla fase operativa: è l’articolo 81 a stabilire le modalità di funzionamento e di utilizzo del lavoro occasionale e gli adempimenti ai quali si devono attenere i datori di lavoro e i lavoratori. Si prevede un sistema di piena tracciabilità dei buoni (il nuovo nome è “schede”) in modo da eliminare ogni possibile abuso. Ogni lavoratore interessato a svolgere prestazioni di lavoro subordinato occasionale è tenuto a comunicare la sua disponibilità ai servizi per l’impiego nell’ambito territoriale di riferimento o ai soggetti privati accreditati. Il lavoratore riceve una propria tessera magnetica dotata di un codice Pin. I datori di lavoro/committenti acquistano le schede, dotate ognuna di un proprio codice a barre, presso le rivendite autorizzate fornendo i propri dati anagrafici e il proprio codice fiscale. La retribuzione del lavoratore avviene mediante la consegna delle schede da parte dei datori di lavoro. I lavoratori possono riscuotere i compensi attraverso la presentazione della tessera magnetica e del relativo Pin e la consegna delle schede presso le rivendite autorizzate. Ogni scheda ha un valore nominale di 10 euro e corrisponde a un’ora di lavoro. La scheda è comprensiva dei contributi previdenziali (1,30 euro) per il fondo pensioni lavoratori dipendenti e della copertura assicurativa Inail (0,70 euro). Una quota (0,50 euro) è per le spese di servizio. Il valore netto a favore del lavoratore è pari a 7,50 euro per ogni scheda. Viene confermato che i compensi per le prestazioni sono esenti da imposizione fiscale e non incidono sullo stato di disoccupazione o inoccupazione del lavoratore.

In sostanza, diventerebbe più difficile svolgere attività di lavoro occasionale (in settori limitatissimi) che qualsiasi altre mansioni. Si direbbe quasi che sia necessaria la “patente”. Come a quel personaggio di Pirandello che aveva nomea di iettatore. Nel dibattito si è persino ipotizzato di sostituire l’uso dei voucher con l’introduzione di mini-jobs all’italiana. Ma che cosa sono questi strumenti che in Germania interessano alcuni milioni di lavoratori? Sono previste varie tipologie di minijobs che possono essere prestati in ambito familiare, nel settore commerciale e nei lavori di breve durata. Il/la mini-jobber in ambito familiare svolge servizi al pari di una colf. I mini-jobs nelle abitazioni private sono una forma speciale di occupazione marginale e sono particolarmente incoraggiati dal legislatore: i contributi fissi sono inferiori rispetto a quelli versati a favore dei mini-jobs del settore commerciale. Poi ci sono i lavori a breve termine che non durano più di due mesi per un totale di 50 giorni lavorativi per anno civile. Nonostante i loro limiti, queste esperienze, ormai in atto da anni, hanno fornito in Germania un grande contributo all’occupazione.