Dalle statistiche sul lavoro nel 2016, l’Istat dà non solo al Governo (chi ha orecchi e cervello per intendere intenda) il miglior quadro per riflettere dove e come agire rivisitando pure quello finora fatto sul campo. Sono infatti 1.085.000 i nuclei familiari che, secondo l’Istituto nazionale di statistica, sono composti da persone abili al lavoro, e in cerca di occupazione. Si tratta di uno “zoccolo duro” perché la variazione rispetto al 2015 è marginale (-0,7%), anche se c’è stata. Il milione di famiglie senza lavoro rappresenta il 6,6% delle famiglie presenti sul mercato del lavoro (16,5 milioni). Per un milione di famiglie a zero occupazione ci sono, infatti, 13,9 milioni in cui tutte le forze lavoro sono impiegate. Questo significa che lo sforzo da produrre non solo deve essere ampio, ma ben mirato.



Ben mirato significa non trascurare alcun aspetto legato a questa statistica che appare molto significativa perché parte dal label “famiglia”; label che ci permette di riconnettere la gamma d’interventi effettuati in questo contesto (indennità varie, assegni familiari Inps, integrazioni al minimo, ecc.) a quell’esigenza di vedere come possa essere gestita in modo complessivo, ordinato ed equilibrato la grandezza famiglia nel suo percorso di vita.



Se poi si pone attenzione alla piaga che colpisce particolarmente il Mezzogiorno, (dove si situano 587mila casi: più della metà), si aggiunge anche un altro tassello importante che è la possibilità di affrontare un quadro regionale differenziato e comunque deteriorato (Nord Italia 300 mila famiglie e Centro 198 mila famiglie), dove partendo proprio dal Sud si deve perseguire la politica di mettere in pari su una base minima di partenza le aree del Paese.

Altra interessante notazione statistica è che tutti i componenti, di queste famiglie, attivi per il mercato del lavoro, sono disoccupati. Ciò non significa che siano in assoluto senza un reddito, ma che quest’ultimo, se esiste, arriva da altre fonti (come possono essere rendite o pensioni) e non dall’impiego.



Ed ecco che emerge forte la condizione femminile: ci sono 970mila le famiglie, con e senza figli, dove la donna è l’unica fonte di reddito. Terreno fertile per le pari opportunità in termini di retribuzione, all’attenzione del sottosegretario Boschi e del ministro Poletti, oltreché fertile terreno di riflessione e proposte da Alesina a Nannicini.

Ma non è finita la ricchezza di spunti che offre l’Istat, perché non manca, infine, la composizione di quei nuclei familiari senza lavoro: 448 mila sono coppie con figli e 290 mila sono famiglie con un solo componente, single, più spesso uomo che donna (178 mila contro 113 mila). Seguono 222 mila nuclei mono-genitore (e stavolta sono più donne, 192 mila) e 80 mila coppie senza figli.

Ora che sappiamo, che facciamo? Dopo la fine dei voucher decretata in senso anti-referendario e una pregressa antipatia ideologica (e sarebbe ora di finirla cara Susanna Camusso, visto che un’antipatia altrettanto ideologica, quella di Epifani, impedì di fare un salvataggio dell’Alitalia, trasformandola in public company) verso il lavoro a chiamata, torna forte l’esigenza di ripensare il lavoro come dimensione di un ciclo vitale, dandogli una dimensione di continuità (non posto fisso, ma condizione lavorativa fissa: cioè leggasi costante nel tempo).

Diventa pertanto in una condizione fissa e continuativa il lavoro di passaggio come lo chiamai in un precedente intervento o intermittente da esplicarsi come e quando voglia il mercato, un lavoro che non disdegna alcuna forma d’impegno (e se ne potrebbero trovare centinaia al di là di quelle ribattezzate socialmente utili) contrattualizzato anche digitalmente (perché no?) con un ‘Agenzia nazionale per il lavoro e con reddito temporaneo e contributi (assistenza sanitaria già inclusa).