Le modalità con cui le persone cercano un lavoro, vale a dire i canali di intermediazione, sono un elemento cruciale nelle dinamiche dell’occupazione, perché consentono di minimizzare i costi individuali e collettivi nella ricerca di un impiego, favorendo la riduzione dei tempi di permanenza nello stato di disoccupazione e un ottimale incontro tra domanda e offerta di lavoro.



In particolare parenti e amici sono, in Italia, ancora il principale canale per trovare un lavoro. Un occupato su tre deve, infatti, il proprio impiego all’intervento diretto di queste reti informali. Considerando la più ampia dimensione degli aiuti “indiretti”, il canale amicale e parentale viene coinvolto durante la fase di ricerca del lavoro in ben il 60% dei casi.



I servizi per il lavoro pubblici (i famosi Centri dell’impiego) e privati svolgono, altresì, un ruolo di intermediazione diretta molto contenuto. Solo il 3,4% degli occupati dichiara, infatti, di aver trovato lavoro attraverso i Centri per l’impiego (Cpi) e il 5,6% mediante le Agenzie per il lavoro (le ex agenzie interinali).

In questi anni si è poi sviluppato in maniera sempre più significativa il “social recuiting”, che consiste nel cercare candidati validi in rete, su LinkedIn (principalmente), ma anche su Facebook e Twitter. In Italia, tuttavia, il modo in cui si cerca e si trova lavoro continua a essere ancora fortemente condizionato dalla famiglia di provenienza, dalla storia personale, dal territorio di residenza e questa tendenza si è accentuata durante la crisi. Ciò va, ovviamente, a scapito sia del merito, sia delle pari opportunità per tutti, favorendo le (odiose) rendite di posizione.



In questo quadro hanno fatto molto rumore le dichiarazioni del ministro Poletti, per cui nella ricerca di un lavoro il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale e che, quindi, si creano, per assurdo, più opportunità a giocare a calcetto insieme che a mandare in giro i curricula scritti bene. Come facilmente immaginabile, intorno a questa posizione si è scatenata una piccola tempesta politica. Il ministro del Lavoro ha così dovuto precisare che non era sua intenzione sminuire il valore del curriculum e della sua utilità, ma voleva, altresì, sottolineare l’importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori di un contesto “formale” (scuola, università, ecc.).

Ovviamente non si dovrebbe condannare in maniera ideologica, o pregiudiziale, l’incontro “informale” tra lavoratori e imprese, ma certamente deve fare riflettere, ad esempio, la storica debolezza nell’intermediazione delle scuole, e delle università, nel nostro mercato del lavoro. Incontri di qualità tra lavoratori e imprese dovrebbero essere, infatti, garanzia di maggiore qualità, e produttività, del lavoro. 

È sgradevole poi, in questa vicenda, quella sensazione di “vecchio” familismo che, almeno nella polemica politica, sembrava essere stato, finalmente (?), “rottamato” e sostituito dal merito e dalle capacità personali.