Bisogna essere strabici per valutare in modo appropriato la questione del costo del lavoro. Un occhio guarda da una parte, l’altro in un’altra direzione. Come ammontare assoluto, il caso italiano si colloca agli ultimi posti nell’Unione europea; se si considera, invece, il differenziale tra il costo del lavoro e la retribuzione netta (il cuneo) l’Italia sale ai primi posti. Ciò significa che gli aumenti salariali sono parecchio onerosi per i datori, ma hanno ricadute modeste in busta paga (il che spiega l’incidenza del lavoro sommerso, dell’evasione e della rincorsa ai rapporti di lavoro atipico). Ecco perché i livelli retributivi dell’Italia sono più bassi di quelli di altri principali paesi dell’Unione europea.
Secondo dati dell’Eurostat relativi alle imprese dell’industria e dei servizi privati, la retribuzione media oraria, a parità di potere d’acquisto, si colloca tra il 30 e il 40 per cento inferiore rispetto ai valori di Francia, Germania e Regno Unito. Eppure si continua a parlare del costo del lavoro come se fosse un’escrescenza anomala, quando invece ogni euro versato dai datori o prelevato dalle buste paga dei lavoratori va diretto allo scopo o di sostenere la fiscalità generale o di finanziare il modello di welfare all’italiana, dopo che negli anni passati i Governi hanno fiscalizzato i cosiddetti oneri impropri. Peraltro, quello della fiscalizzazione è un terreno irto di insidie, perché, giustamente, l’Unione europea è molto guardinga e severa nel sanzionare, in nome della libera concorrenza, gli aiuti di Stato alle imprese. Eppure è questo l’invito che viene dai principali organismi internazionali, attribuendo all’obiettivo della riduzione del cuneo-fiscale un’assoluta priorità rispetto ad altre iniziative di carattere fiscale assunte dall’esecutivo precedente.
Di ridurre il costo del lavoro, così, ha parlato il premier conte Gentiloni Silveri, annunciando, nel contempo, che il Governo da lui presieduto arriverà a fine legislatura. I margini sono comunque limitati, sia per quanto riguarda le risorse di carattere fiscale, sia quelle contributive-previdenziali. Un’attenta consultazione del bilancio dell’Inps metterebbe in evidenza che vi sono prestazioni per le quali le entrate sono superiori alle uscite (come l’assegno al nucleo famigliare o l’indennità di malattia, per esempio) e quindi lasciare intendere che, in questi casi, sarebbe possibile un taglio dei contributi sociali. Una prospettiva impraticabile dal momento che quello dell’Inps è un bilancio unitario, in cui le poste attive vanno a compensare quelle passive. Evidentemente senza riuscirci, visto che il bilancio consuntivo 2015 dell’Istituto ha un saldo negativo di oltre 16 miliardi.
Certo, la riduzione del costo del lavoro favorirebbe la ripresa economica. Ma non risolverebbe tutti i problemi. Occorrerebbe adottare, infatti, misure opportune per ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto (il Clup) che in Italia è molto elevato. Sarebbe ingeneroso caricarne la responsabilità soltanto sui lavoratori.
Per tanti motivi che non riguardano soltanto l’organizzazione del lavoro e l’apporto dei lavoratori, l’Italia si trova in una posizione svantaggiata rispetto ai Paesi con cui è in competizione. Se consideriamo le variazioni percentuali medie degli anni duemila (poi la Grande Crisi ha determinato assetti ancor più destabilizzati) possiamo notare un incremento di produttività del 5,2% negli Usa, del 3% nel Regno Unito, dell’1,8% in Germania, del 2,5% in Francia e solo dello 0,4% in Italia (un dato inferiore persino all’1,5% della Spagna). Diversamente, nello stesso periodo le variazioni percentuali medie dei salari reali dell’industria hanno dato i seguenti riscontri: Usa +1,3%, Regno Unito +1,6%, Germania +0,5%, Francia +1,3%, Italia +0,9%. In sostanza, in Germania i salari reali sono cresciuti meno della produttività, da noi più del doppio.
Lo stesso discorso vale per il costo del lavoro che in Italia è aumentato un punto in più che in Germania (3,1% rispetto a 2,1%). Ma è più significativo il dato del Clup nel settore manifatturiero (la cui capacità di export dipende dal grado di competitività). La variazione percentuale media annua, in quello stesso periodo, è stata dello 0,2% in Germania, dello 0,6% in Francia e del 2,7% in Italia. Se poi consideriamo il Clup riferito all’intera economia otteniamo uno 0,4% della Germania contro un 2,6% del nostro Paese. Al dunque, un differenziale di 2,2 punti che sono diventati 2,5 nel settore manifatturiero.
In sostanza, si stima che l’Italia abbia perso, negli anni scorsi, trenta punti di produttività rispetto alla Germania, che all’inizio del primo decennio era ritenuto il “grande malato d’Europa” e che, invece, ha saputo farcela attraverso le riforme del welfare e del mercato del lavoro e grazie ad un modello di relazioni industriali che non si è sottratto ai sacrifici necessari. Diventa sempre più importante spostare il peso della contrattazione di prossimità avvalendosi delle misure di tassazione agevolata per le voci che, a livello aziendale, remunerano la produttività e favoriscono, così, la competitività.