Governo e sindacati sono tornati a confrontarsi sulla riforma delle pensioni (oggi parleranno d’altro), dimostrando la volontà di arrivare a nuove intese dopo il verbale siglato alla fine di settembre 2016. Riusciranno a raggiungere un nuovo accordo? E su che cosa? Domande quanto mai importanti, perché a quanto è dato di capire, il Governo Gentiloni sarà ancora in carica quando si tratterà di definire la nuova Legge di stabilità in autunno. È difficile però che già nel Def di aprile si possa fare accenno a eventuali futuri provvedimenti in materia previdenziale, tanto più che Pier Carlo Padoan dovrà ingegnarsi per racimolare 3,4 miliardi di euro per la manovra aggiuntiva chiesta da Bruxelles.



Sembrano poi lontani i tempi in cui gli esponenti del Governo, compreso il Premier, rilasciavano dichiarazioni sulle possibili modifiche alla Riforma pensioni della Fornero. E non solo perché potrebbero ritenere chiuso il capitolo flessibilità con l’Ape. Del resto l’Anticipo pensionistico non ha carattere strutturale e ancora non è stato chiarito quanto costerà agli aspiranti pensionandi. E anche parlamentari fino alla fine dell’anno scorso impegnati a sostenere la necessità di una riforma delle pensioni sembrano essere “scomparsi”. Cesare Damiano, per esempio, pare ora più assorbito dalle vicende interne al Partito democratico che non a sostenere la necessità di discutere in aula la sua proposta di legge pronta da tempo e a sostegno delle quale sono state raccolte centinaia di migliaia di firme.



Sul tavolo di Governo e sindacati, si sa, c’è la cosiddetta fase due, dedicata alle pensioni dei giovani e ai criteri di indicizzazione degli assegni in essere. Sembrano essere limitati gli spazi per interventi che interessino i lavoratori più anziani, che in molti casi attendono con ansia di poter accedere alla quiescenza. Forse verrà infatti rivisto, per alcune professioni, il meccanismo che lega i requisiti pensionistici all’aspettativa di vita. Resta il fatto che qualche “ritocco” alla Legge Fornero l’esecutivo potrebbe (e dovrebbe) farlo.

Innanzitutto risolvendo una volta per tutte la questione della riforma pensioni riguardante gli esodati. Nonostante otto salvaguardie, infatti, c’è chi ancora si ritrova senza reddito, ammortizzatori sociali o pensione a causa della legge approvata a fine 2011. Sarebbe poi giusto riconoscere a chi ha versato contributi per oltre 40 anni la possibilità di andare in pensione, anche se non ha ancora 60 anni. Si sta infatti assistendo a situazioni paradossali per cui i lavoratori precoci, che hanno magari iniziato a lavorare minorenni, devono restare al lavoro mentre loro colleghi occupati per meno anni hanno maturato il diritto di accedere alla pensione. Non ci vuole molto a capire che la richiesta di Quota 41 risponde a un comune senso di giustizia. 



Andrebbe, infine, fatto qualcosa per le donne. L’innalzamento della loro età pensionabile (più brusco rispetto a quello degli uomini) ha reso appetibile quell’Opzione donna che fino al 2012 quasi nessuno prendeva in considerazione. Il Governo ha fatto capire che quel regime sperimentale non può diventare strutturale e non potrà essere più usato, nonostante generi nel medio-lungo periodo un risparmio per le casse pubbliche (si prevede infatti quel ricalcolo contributivo pieno dell’assegno che in tanti vorrebbero applicato ai vitalizi dei politici o alle baby pensioni). Trovi allora un’alternativa. Per esempio, se non vuole che le italiane possano andare in pensione a 57-58 anni rimettendoci anche fino al 30% del loro assegno potrebbe portare quella soglia di età a 60-61 anni o farle in qualche modo accedere all’Ape. Se qualcuno è pronto a “pagare” (certamente a malincuore) per poter andare in pensione perché chiudergli in faccia ogni porta?