Alla fine di febbraio, il ministro per i Rapporti con il Parlamento ha trasmesso alla presidenza della Camera dei deputati uno schema di decreto legislativo che reca modifiche al decreto legislativo n. 165 del 2001, che disciplina il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti. Le commissioni al cui esame è stato affidato lo schema potranno proporre osservazioni di cui il governo dovrà tenere conto nell’adozione del testo definitivo; dunque, è forse ancora prematuro esprimere un giudizio complessivo su di esso.
Sin d’ora si può dire comunque dire che l’impianto generale dello schema di decreto è improntato da una parte a esigenze di “drafting normativo”, ossia all’intento di rendere più coerente, anche da un punto di vista lessicale e ordinamentale, il decreto n. 165, che risale ormai a più di quindici anni fa; dall’altra, all’esigenza di rendere più efficiente la Pubblica amministrazione nel rapporto con i propri dipendenti, anche “aggiornando” alcune procedure oramai datate. In sintesi, e volendo impiegare le espressioni on. Cesare Damiano, che ha relazionato sul provvedimento nella commissione Lavoro della Camera nella seduta del 21 marzo u.s., «si tratta di un ampio ventaglio di misure che si inserisce nel più generale programma di modernizzazione e di rafforzamento delle amministrazioni pubbliche».
Come dicevo, è prematuro esprimere giudizi sulle molte modifiche apportate, visto anche il meccanismo del “doppio parere” che potrebbe essere richiesto al Parlamento. Ma nella prima sommaria lettura che ho dato a tale testo, ho provato un senso di disagio, cui le parole che qualche tempo fa la segreteria generale della Cisl, sig.ra Annamaria Furlan, ha avuto modo di esprimere in relazione ad altra vicenda normativa, hanno saputo dare un nome: “l’errore più grande che è stato compiuto da tutti i governi (nessuno escluso) in questi anni è stato proprio quello di voler intervenire con le leggi sulle materie e sulle regole del lavoro, pensando che solo da queste scaturisse una maggiore crescita e una maggiore occupazione”.
In altri termini, il legislatore italiano, nel corso degli ultimi anni, ha adottato una impostazione giusnormativistica, per così dire, estrema; si è quasi fatto Dio, che con la Sua parola porta le cose a esistenza. Per spiegarmi, mi permetto di proporre due episodi – verificatisi l’uno a nord, l’altro a sud di Roma – , di cui mi sono dovuto occupare professionalmente. Lo schema di decreto interviene, tra gli altri, sugli articoli 55 e 55bis del testo unico del pubblico impiego, che disciplinano uno degli aspetti più acuti del rapporto di lavoro, ossia le procedure disciplinari: e i due episodi riguardano per l’appunto due (mancate) procedure disciplinari.
Nel primo, un lavoratore aveva notato gravissimi comportamenti posti in essere dal dirigente dell’ufficio cui era preposto, che andavano da veri e propri soprusi a suo danno al compimento di fatti illeciti a danno della Pubblica amministrazione di appartenenza. Prima di presentare una formale denuncia sulla questione, ha segnalato la cosa ai dirigenti apicali della struttura, anche per capire quali potessero essere le modalità più opportune, e questi gli hanno sostanzialmente fatto capire che non avrebbero fatto, non avrebbero potuto fare nulla a carico del dirigente e – in riferimento alla sua posizione – che se del caso e se voleva l’avrebbero trasferito presso altra struttura.
Nel secondo caso, il dipendente di altro ente pubblico, che era stato pesantemente ingiuriato da un collega nel corso di una riunione di lavoro, si è rivolto al dirigente per denunciare il comportamento; a una prima segnalazione, il dirigente aveva risposto con fatalistica rassegnazione: “Cosa ci vuole fare? Lo sanno tutti che quel collega è fatto così!”. Vista l’inerzia del dirigente, il dipendente ha presentato una formale richiesta di intervento, anche invocando l’adempimento dell’obbligo del datore di tutelare le condizioni di lavoro. Ebbene, a tale richiesta è seguita una procedura disciplinare a carico del dipendente ingiuriato, che – secondo la prospettazione del dirigente – con la sua denuncia lo avrebbe implicitamente accusato di incapacità di gestione dell’ente che gli è stato affidato! Non si ha notizia se sia stata avviata una procedura anche a carico dell’altro dipendente…
Mentre leggevo le modifiche, pure apprezzabili, introdotte dallo schema di decreto all’esame del Parlamento, mi son chiesto quale contributo di efficienza potrebbero portare le norme proposte dal governo in fattispecie del genere. Si tratta di casi nei quali non è l’assenza della regola a causare l’effetto antigiuridico e a rendere intollerabile il rapporto lavorativo, ma casomai l’assenza di cultura giuridica o, più radicalmente, di cultura in sé. Nessuna legge potrà introdurre il principio di responsabilità o educare i destinatari, se non con l’effetto repressivo a posteriori; e in effetti, tra le modifiche in discussione c’è la previsione secondo la quale «La violazione delle [norme sul procedimento] costituisce [a propria volta] illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro applicazione». Ma già ora un dirigente che ometta di esercitare le sue funzioni è responsabile anche sotto il profilo disciplinare!
Come insegna Manzoni, non è il profluvio di grida che impedisce alla carestia di mietere vittime! Ecco, mi sembra che possa essere illusorio, se non ingenuo, pensare che le norme (o più esattamente l’ansia normativistica del legislatore degli ultimi quindici anni) possano surrogare la mancanza di educazione e responsabilità personale.