Che posto ci sarà per il sindacato nella società del domani, quella in cui non ci sarà lavoro, almeno nella vulgata da radical-chic, perché gli uomini saranno sostituiti dai robot? Oppure: che fine farà il sindacato se la politica, in accordo con la visione tipica di una Cgil, sostituirà la contrattazione con la legislazione? Che fine farà il sindacato se, come dicono all’unisono M5S e Pd, il futuro sarà caratterizzato da un rapporto non intermediato tra datori di lavoro e lavoratori?



Ma chi se ne frega, verrebbe da rispondere con un certo pragmatismo a domande così strambe! Eppure se le domande sono strane, altrettanto non si può dire dei contenuti che esse evocano. Il sindacato, infatti, farà la fine che faranno tutte le realtà umane: se sarà utile resterà in vita e si adeguerà, se invece non sarà utile perderà ogni ragion d’essere e sparirà. Insomma, solo tra qualche tempo potremo capire se i sindacati appartengono alla razza dei dinosauri o a quella dei mammiferi. Appunto, tra qualche tempo e se sarà utile. Ma quanto è questo tempo? Anni, mesi, decenni? E quando il sindacato diverrebbe inutile? Quando spariranno gli operai? Quando sparirà il lavoro? Ma il lavoro sparirà mai?



Ecco, secondo taluni benpensanti illuminati e futurologi potrebbe essere proprio la (dal loro punto di vista) auspicabile sparizione del lavoro a far scomparire Cgil, Cisl e Uil. Strana prospettiva questa, dato che è come augurarsi la fine del mondo per liberarsi del fastidioso ronzio delle zanzare Davvero dovremmo sperare in un futuro in cui l’uomo si riduca a non far nulla, e quindi lentamente a tornare allo stato di ameba? Davvero il nostro problema sono i robot, le macchine, i motori che ci sostituiranno? Davvero l’alternativa è tra la forza umana e i cavalli vapore? Davvero per trovare lavoro per tutti dovremmo tornare a distruggere i trattori e porre, con delicatezza mi raccomando, il giogo sulle spalle delle donne, come avveniva nell’età antica, e far tirare loro gli aratri? Davvero dovremmo creare lavoro distruggendo i motori a scoppio e mettendo una trentina di persone a spingere ogni autobus pubblico? Davvero qualcuno sta pensando ai diversi luddismi risorgenti in Internet, come uscite verso il futuro? Anche queste domande sono retoriche, ma gli scenari che alcuni intellettuali disegnano, a dire il vero con più omaggio al politically correct che non alla realtà, sono zeppi di involontaria comicità.



Per questo motivo viene da dire che se tale è lo scenario a cui lavorano i tanti pensatori, impegnati, nel corso dei profondi dibattiti serali televisivi, a influenzare la politica italiana, allora lunga vita al sindacato nella sua forma più vera, più sindacale, quella meno politica e più contrattualista. D’altra parte, proviamo a pensare a quel che succede davvero, non a quel che pensiamo che possa, un giorno, per caso, se fosse, magari, accadere.

Prendiamo la questione dei voucher: su di essa si sono costruite cattedrali di affermazioni (“generazione voucher” per indicare i giovani sfruttati – “macelleria sociale” – “schiavitù” – “arma per le imprese senza scrupoli”), riprese da legioni di commentatori, da comici televisivi in cerca di facili battute. Bene, nessuno di loro che sapesse che essi riguardavano lo 0,3% del monte ore di lavoro? Se fosse vero dovrebbero tacere e cambiare mestiere. Semplicemente, come per l’articolo 18, come per tanti altri aspetti che di volta in volta sono divenuti “urgenza nazionale”, li si è usati per trasformare il sindacalismo in politica.

I voucher, in realtà, dovevano servire solo per remunerare piccoli lavoretti saltuari e occasionali: tutti sapevamo che non possono essere sostituiti da nessun contratto a tempo indeterminato o regolamentati con precisione. Così la decisione di abolirli, presa al solo scopo di evitare il referendum promosso dalla Cgil, ha lasciato campo libero all’evasione fiscale e contributiva. Ciò dimostra che in fondo, il problema per chi pensa che il futuro del sindacalismo non sia la contrattazione, bensì la legislazione, sta proprio nel manico: davvero alla politica, al Pd, M5S, Fi e via siglando, il lavoro interessa?

Intendiamoci, parliamo del lavoro quello vero, di quello di tutti i giorni, non quello sognato dai nipotini del socialismo reale come da quelli del liberalismo (trumpiano o reaganiano che sia). Se davvero non fosse stato così, non avremmo assistito a quella squallida scenetta da avanspettacolo che è stata la manfrina governativa sui voucher: un tema che riguarda la vita quotidiana e il lavoro dapprima viene trasformato nell’ennesima “battaglia per i diritti universali di chiunque, a tutto, e a prescindere da ogni dato”, e poi, semplicemente e pavidamente, viene risolto non dalle parti in causa, bensì da un Parlamento lieto di liberarsi di un simile peso per poter tornare a occuparsi del proprio destino. No cari amici e compagni, nemmeno ai partiti di sinistra, concentrati sulle beghe interne o alla rincorsa dei vari populismi, nemmeno al Pd, importa come voi pagherete le baby-sitter dei vostri figli, se sarà in nero, in bianco o in rosso; se a quei giovani verranno o meno versati i contributi previdenziali: l’importante era evitare un referendum sbilenco per tornare a morire di tatticismi.

Altrettanto fallimentare però, è la speranza che con costanza degna di miglior causa, a ondate, si coltiva di poter finalmente togliere di mezzo la mediazione, di poter far sparire i corpi intermedi. Beh, se la dite così, ogni politico che si rispetti risponderà che nessuno vuol far sparire niente, e che però, insomma, i corpi intermedi si devono riformare, devono tornare nei loro argini, e via retoricando. Pensiamoci: negli anni ’80 e ’90 ci provò l’allora Partito Radicale; poi venne il primo Berlusconi; cui seguì, con maggior bonomia, ma non minor tigna, il buon Prodi. Quindi fu la volta dei Governi tecnici, che non discutevano semplicemente perché erano tecnici: ma poco cambia, perché il frutto di quella stagione fu la Riforma Fornero, candidata fuori quota al titolo di peggior pasticcio della storia repubblicana italiana. Poi arrivò il “toscan rottamatore”, ora è il turno dei Cinque Stelle.

Con orientale pazienza si potrebbe dire: aspetta, passerà anche questo vento di follia come sono passati gli altri. Perché tutti quelli sopra (tranne i radicali, a dire il vero, ma perché al Governo non ci sono mai andati per davvero) hanno dovuto fare passi, anzi passeggiate, indietro e tornare a chiedere una mano alla società civile, ai corpi intermedi. Di fronte alla rabbia generata dai problemi concreti, dalle crisi quotidiane, dai costi della vita e del lavoro, infatti, o c’è qualcuno in grado di dare contenuto e forma alla disperazione oppure ogni volta ne beneficiano i populisti; e questo qualcuno non possono che essere proprio i corpi intermedi riformisti, quelli che si fanno guidare dal buon senso e che ogni giorno parlano con la gente perché la gente ha fiducia in loro. Poco importa, d’altronde, se i populismi son di destra o sinistra o di sopra o di sotto, se stanno nella rete o nel retino. Sempre populismi sono.

Anche qui. Un esempio per capire perché più passa il tempo più lo spazio politico è, sarà, del sindacato contrattualista e riformista. Sul tavolo c’è la questione della povertà. Tema serio, che andrebbe trattato con idee, innovazione, capacità di analisi. La discussione invece si arrotola intorno alla proposta del M5S di un sussidio da dare a tutti. È una proposta che non solo non crea lavoro, ma lo toglie: nel senso che sembra fatta apposta per togliere il lavoro a quei sindacalisti che risolvono ogni difficoltà con una bella trovata demagogica, con un bel “ci vorrebbe invece”, per poi tornare a dedicarsi al loro tema preferito: la caccia al potere politico. Cosa fare di fronte a un tema tanto delicato?

Osservate con attenzione: nessuno osa dire di no, tutti, anche moltissimi sindacati, sono alla ricerca di un posto nella discussione per poter dire di sì: in fondo il sì costa poco, fa fare bella figura, risolve un problema. Il punto è però che il solo problema risolto non riguarda né la povertà, né il lavoro, bensì quello elettorale: anche i disperati, i disoccupati, i poveri, votano. Ma il tema, per un sindacato riformista e innovatore, cioè un vero sindacato, non dovrebbe essere né il voto, né la bella figura, ma piuttosto la dignità dell’uomo, della persona. E una persona senza lavoro è semplicemente un po’ meno libera, un po’ meno realizzata. Quindi si capisce perché la sola voce contraria, o quanto meno quella che con più forza si oppone a questo obbrobrio politico, sia quella della Cisl. Il sindacato di via Po chiede più lavoro non più sussidi, punta sull’occupazione che nasce da proposte creative, che generano le persone con la loro energia insostituibile, che aumenti la ricchezza Paese e non invece distribuisca la povertà. Chiede più formazione e di puntare sullo sviluppo e l’innovazione tecnologica, non di tornare all’antica politica del panem et circenses per tener buone le folle. Solo che, come sempre, chi strilla si fa sentire, chi ragiona deve puntare sul convincimento delle persone. Nel nostro caso, comunque, il buon senso fa il paio con i bilanci: la proposta del sussidio a tutti avrebbe costi tali che l’Italia rischierebbe di uscire non dalla zona Euro ma da qualunque umano consorzio. Solo che dirlo non porta voti!

Insomma, né per legge, né da soli contro il potere: il domani è dei contratti tra le parti, e di chi si batte per farli e rispettarli! Il domani è di un sindacato associazione che “educa” le persone e che le accompagna, non di chi le illude per isolarle e addormentarle. Amen e Buona Pasqua a tutti.

Leggi anche

SINDACATI vs IMPRESE/ Se Cgil, Cisl e Uil non si sono (ancora) accorti della crisiSINDACATI E POLITICA/ Così il Recovery può aiutare l'occupazione in ItaliaAMAZON USA, NO AL SINDACATO/ La sfida della rappresentanza nel capitalismo Big Tech