Per quanto riguarda l’aspetto delle variazioni assolute, nei primi due mesi dell’anno in corso, le pensioni di vecchiaia (inclusive dell’anzianità, il che è un altro grave limite delle statistiche), hanno segnato l’indice 109,4; l’invalidità pensionabile è più che dimezzata (42,6); i trattamenti ai superstiti hanno subito una flessione (97,8); sono aumentati gli assegni e le pensioni sociali (114,1), mentre hanno avuto un incremento notevole i trattamenti di invalidità civile (154,6); un milione in più in una dozzina di anni. Il numero totale dei trattamenti di ogni tipologia è cresciuto solo di poco più del 3%.



L’analisi delle statistiche sulle pensioni costituisce un insostituibile lettore ottico delle trasformazioni socio-economiche e demografiche della società italiana. Il Coordinamento attuariale dell’Inps ha reso noti i dati relativi alle pensioni erogate nel 2016 e vigenti al 1° gennaio di quest’anno. Prima ancora degli andamenti più recenti è interessante osservare la serie storica delle diverse tipologie di pensioni. Per una strana cabala (visto che l’incorporazione è operante da anni) non sono forniti di dati riferiti alle gestioni dei dipendenti pubblici e dell’ex Enpals (spettacolo). Con riferimento, quindi, alle principali gestioni del lavoro dipendente e autonomo privato, fatti uguali a 100 gli indici del 2004 consideriamo le variazioni del numero dei diversi trattamenti e del loro importo medio.



Prima di passare alla variazione degli importi medi è opportuno svolgere alcune riflessioni sui numeri. Balza subito in evidenza il crollo dell’invalidità pensionabile se l’ammontare è messo a confronto con il boom dell’invalidità civile (sappiamo poi che la grande maggioranza di siffatte prestazioni si riferiscono all’indennità di accompagnamento piuttosto che alla relativa pensione). Non c’è dubbio che sul numero dei trattamenti di questo settore ha pesato molto l’invecchiamento della popolazione, con annesse condizioni di invalidità negli ultimi anni di vita. Ma vi è indubbiamente una ragione di carattere legislativo con effetti evidenti a livello socio-economico: le conseguenze della riforma dell’invalidità pensionabile (legge n.222/1984). Prima di quella misura l’Italia sembrava un Paese di invalidi. E l’assistenzialismo c’entrava fino a un certo punto, dal momento che, in base alla disciplina vigente, il criterio che determinava il riconoscimento dell’invalidità (la lettera I dell’acronimo Ivs) era la perdita della capacità di guadagno. Pertanto, sulla base di precise direttive ministeriali convalidate da una giurisprudenza consolidata, si teneva conto anche del contesto socio-economico (ovvero di un aspetto esterno ed estraneo alla situazione del soggetto) per accertare i requisiti di una condizione di invalidità. Perciò tale prestazione si era trasformata, specie nelle regioni meridionali, in una sorta di assegno di assistenza.



La riforma del 1984 rovesciò questa impostazione, condizionando l’attribuzione dell’assegno d’invalidità o della pensione d’inabilità alla riduzione, parziale o totale, in modo permanente, della capacità di lavoroin occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto, a causa di difetto fisico o mentale. Da qui la progressiva “normalizzazione” del settore. La società assistita, da allora, si è spostata sull’invalidità civile (siamo ormai a più di tre milioni di prestazioni per 17 miliardi di spesa).

Va riconosciuto che, negli ultimi anni, l’aspetto meramente assistenziale di questa prestazione si è ridotto da quando gli accertamenti sono stati trasferiti dal Ssn all’Inps. Ma la questione è lontana dall’essere risolta. E non si tratta solo di un fenomeno meridionale, dal momento che la Lombardia ha il più alto numero di prestazioni dopo la Campania e la Sicilia. Venendo poi al valore degli importi medi (sempre tra il 2004 e i primi mesi del 2017), i trattamenti di vecchiaia hanno avuto un incremento del 38,3%, l’invalidità pensionabile del 36%, le pensioni ai superstiti del 35%, gli assegni e pensioni sociali del 33,3%, l’invalidità civile del 19,3%. Il complesso delle pensioni previdenziali e assistenziali del 35,8%.

È bene precisare, a scanso di equivoci e di polemiche strumentali, che gli indici non riguardano l’incremento della singola pensione (che beneficia soltanto della rivalutazione derivante dalla perequazione automatica), ma quello sul complesso dei trattamenti che in media migliorano perché legati non solo al variare delle retribuzioni, ma anche all’aumento dell’età pensionabile che ha determinato una maggiore anzianità di servizio e quindi un’aliquota di calcolo più generosa (un aspetto questo che non si considera mai).

A proposito di età pensionabile è opportuno mettere qualche punto sulle “i”. Mentre l’età media di vecchiaia, nei settori privati considerati, nel 2016, è pari a 66 anni (66,8 gli uomini e 65,1 le donne), quella relativa all’anzianità non arriva a 61 anni (poco meno di 60 anni per le donne). E dal 1° gennaio 2012, quando è entrata in vigore la legge Fornero, le pensioni di vecchiaia (complessivamente, per uomini e donne) sono state 450mila, quelle di anzianità 600mila. Hanno pesato i trattamenti “salvaguardati” in favore dei cosiddetti esodati. Coloro che hanno vinto quel terno al lotto hanno avuto la possibilità di andare in quiescenza – in generale di anzianità – avvalendosi persino delle regole previgenti rispetto alla riforma del 2011. Ma si tratta di una tendenza consolidata e non ancora mutata. Se guardiamo agli stock, nell’insieme dei settori privati considerati, le pensioni di anzianità vigenti il 1° gennaio 2017 sono 2,6 milioni per un onere di 65 miliardi, quelle di vecchiaia 2,8 milioni per un onere di 29 miliardi. Ogni ulteriore commento ci sembra superfluo.