C’era una volta, in un Paese lontano lontano, un gran signore, dai modi gentili e dal carattere buono, che amava i suoi sudditi, li serviva, stava attento ai loro bisogni. Che non erano complicati, perché quei sudditi erano buoni sudditi: essi amavano i loro governanti, e per questo chiedevano solo un po’ di lavoro, qualche soldo in più e di poter vivere in pace nel Paese più bello del mondo, pieno di sole, di allegria, di belle cose di vedere e da gustare.



Il gran signore era triste, nel suo cuore piangeva anche se il suo volto doveva essere sempre allegro: egli piangeva perché non riusciva ad assicurare ai suoi sudditi quel che loro desideravano. Ma che anche lui desiderava: perché più loro avessero lavorato, più lui avrebbe raccolto tasse e imposte e più soldi avrebbe avuto da spendere per i suoi cittadini (ma anche un po’ per lui, suvvia: era pur sempre il signore del posto!).



Da anni aveva provato a creare più posti di lavoro: aveva distribuito soldi a chi portava fabbriche e uffici nel suo Paese, aveva inventato nuove leggi, aveva perfino provato a riformare la scuola; aveva addirittura tentato di tagliare un po’ le tasse, per vedere se con qualcuno di quei provvedimenti potesse raggiungere l’obiettivo che si era prefissato. Ma niente: una volta per colpa di una grande rivoluzione che aveva sconvolto il mondo; un’altra per colpa di un cattivissimo vicino che aveva obbligato il gran signore a non tagliare le tasse, ma anzi ad alzarle per costringerlo a pagare dei debiti che lui però diceva di non avere; un’altra per colpa della confusione seguita ad alcune vicende locali, ma insomma, il risultato era sempre stato lo stesso: niente lavoro, e quindi le lamentele e le proteste erano andate aumentando.



Il signore in questione, allora, pensò di radunare tutti i suoi consiglieri e di provare a capire con loro che cosa poteva fare: perché lui soffriva davvero per quella situazione! Così emanò un editto con il quale obbligò tutti, ma proprio tutti, a muoversi da casa loro e dai loro palazzi, per raggiungerlo nel castello reale e per pensare con lui alla soluzione adeguata. Nel giorno stabilito la sala si riempì: ognuno parlava con il vicino, ci si scambiava pareri, si provava a inventare soluzioni che convincessero il signore. Perché tutti sapevano che se lo avessero soddisfatto, lui li avrebbe ricompensati con qualche poltrona o qualche seggio in più. Il brusio era tanto quando all’improvviso entrò nella sala il gran signore in persona: il suo volto non era allegro e la sua voce era flebile, ma non di meno appena accennò le prime parole un gran silenzio calò su tutti.

“Cari sudditi e amici”, esordì il signore, “siete venuti qui per aiutarmi, e io vi ringrazio di ciò perché io ho esaurito le idee e temo che il popolo tra un po’ esaurirà la pazienza. Dobbiamo trovare il modo di creare più lavoro, così i nostri amati cittadini potranno lavorare e pagare le tasse senza brontolare. Datemi dei suggerimenti e io vi ricompenserò”. “Caro Signore – disse alzandosi il primo dei feudatari, il quale veniva da lontano e pensava di avere la soluzione già pronta – io lo so come poter fare: devi tagliare ancora di più le tasse e se qualcuno non vuole, ebbene prendiamo il nostro regno e lo portiamo via, lontano da lui, così diventiamo più bravi e più forti di tutti. Dichiareremo guerra a chi si opporrà a noi”.

“Ma possibile – disse un altro dei consiglieri del signore – che ci sia ancora chi pensa che certe cose siano realizzabili? Davvero qualcuno spera con la guerra di risolvere ogni problema? No, caro Signor nostro, non dobbiamo tagliare le tasse, ma dobbiamo invece dare meno salari ai nostri sudditi, perché loro sono già fin troppo ricchi, mentre le nostre ricchezze diminuiscono ogni giorno che passa. I soldi che risparmiamo li dobbiamo invece tenere per noi per spenderli come meglio desideriamo. Il re sospirò: quel consigliere gli era simpatico, era stato anche suo amico personale, ma adesso i rapporti tra loro si erano diradati: e soprattutto sapeva che quel consiglio non stava in piedi? Come avrebbe potuto trasportare altrove il suo regno? E che cosa avrebbero detto (e fatto) i suoi nemici appena si fosse diffusa la voce che lui se ne andava? E davvero lo avrebbero lasciato andar via così, senza pagare nulla, senza chiedergli neppure una cambiale, un prestito, un pegno? No purtroppo, sospirò tra sé quel gran signore, quei consigli non servivano a nulla.

“Cari amici – disse allora con una voce sempre più spenta – grazie per i vostri aiuti. Ce ne sono anche degli altri?”. “Mio gran signore – disse una voce in fondo alla sala – lo sai che io non sono un tuo grande amico, anzi ho detto spesso a tutti che eri un incapace. Ascoltami però, te ne prego: la sola soluzione è che tu dia a ognuno del tuo popolo uno stipendio, così nessuno sarà povero e tutti vivranno felici”. “Sì – rispose il gran signore – lo so che tu non mi ami, ma non importa, ti ringrazio lo stesso. Dimmi, però, come pensi che io possa realizzare quel che tu mi consigli se non ho soldi? Come faccio a pagare tutti se le casse sono vuote?”. “Non importa – ribatté l’altro – fai un po’ di debiti, tanto quei soldi non li ridarai mai indietro”. Il re sospirò tra sé e sé: avrebbe tanto voluto seguire quel consiglio, perché gli avrebbe risolto quel gran problema che lo tormentava. Ma sapeva benissimo che non si sarebbe potuto permettere di spendere quei soldi: no, si ripeté sconsolato, non ce la faccio.

All’improvviso si udì una voca, pacata, tranquilla, levarsi proprio di fianco al signore: “Io ho la soluzione, mio grazioso signore. Sì, ho la soluzione purché tu mi dia ascolto”. Ma certo, si disse il re, lo ascolterò perché quello che parla, il Gran Muftì Cooperativo – è un mio fedele, mi vuole bene e poi lui di lavoro se ne intende, ha guidato la Gran Confraternita delle Cooperative Unite: “Dimmi dunque, o caro Abn Giulian El Poletti – questo è il nome dell’esimio funzionario – svelami il tuo pensiero onde io ne tenga conto”.

“Dunque, mio re – disse il Gran Muftì – devi fare così. Se il lavoro non si crea, non importa: ci dispiace, ma noi andiamo avanti lo stesso. E siccome abbiamo finito le idee, chiediamole in prestito agli altri. Non ci costano nulla, loro potranno sempre dire di aver partecipato, e tu intanto fai passare un po’ di tempo. Tra qualche mese, quando tutti avranno detto la loro, faremo un piccolo provvedimento e aspetteremo. Intanto i mesi trascorreranno e tutti saranno contenti”. “Hai ragione” gridò felice il re. “Se non posso creare lavoro almeno creerò un luogo dove tutti potranno darmi dei suggerimenti. E poi farò di loro quel che voglio”. E poi, disse tra sé e sé, torneranno a parlare tra loro, qualcuno mi criticherà, tanti scriveranno e sembrerà proprio che io abbia risolto il problema.

Così creò un portale, un bel portale su Internet, perché anche in quel Paese era arrivata la tecnologia, e con un editto avvisò i suoi sudditi: “Carissimi, ora finalmente potrete dire la vostra, anche voi potrete esprimere i vostri pareri e dirci cosa fare per aumentare il lavoro. Dopo che ce lo avrete detto noi vedremo cosa potremo fare”. Così in quel paese tutti vissero felici, in attesa che si creasse un luogo dove poter parlare del lavoro che verrà.

Il nome del Paese? Italia. L’anno? Il 2017. Dal vostro cronista che è, come voi, in fervida attesa della creazione del “Portale per le Idee sul Lavoro”.